11.1.5. L’adulterio di Anna (1789)

L’adulterio

A chiusura di questo lungo discorso sui matrimoni, è posta una scrittura[1] spesso considerata il capolavoro del Franceschi. Si tratta di un caso travagliato: un avvocato veneziano, Antonio Maria Gini, che in suo primo memoriale, affermava di aver contratto un matrimonio segreto con Anna Cavazza, spinto da “ingannevoli femminili lusinghe, che si convertirono in acerbe continue amarezze, accusa la moglie di adulterio e di illegittimo concepimento. Nel suo primo ricorso, l’avvocato aveva annunciato la volontà di stabilire la donna, incinta, presso la casa di una levatrice, per salvare l’onore della famiglia. Con il secondo memoriale, vuole inoltre che si precetti la comare a consegnare, al momento del parto, la creatura a persona da lui indicata, affinché cautamente sia portata all’Ospedale della Pietà, con un solo segno, da esser poi consegnato solamente a lui o al tribunale dei X, qualora fosse ritenuto opportuno. Questo per prevenire l’indebito discapito di un altro figlio, legittimo, che vive nella casa paterna. Il Gini racconta ancora che viveva separato dalla moglie, di letto e di stanza, da molti mesi. Ella stessa, in preda alla rabbia nei suoi confronti, aveva affermato di essere incinta di altra persona. Ma non ci sono prove, i testimoni, tutti prodotti dal marito, parlano per sentito dire e quelli che veramente potrebbero chiarire i fatti, non sono neppure stati chiamati. Si appella la donna incontinente e capricciosa, ma non per esperienza diretta. I sospetti ed i dubbi sono molti, troppi, secondo il parere del consultore: il comportamento dell’uomo è alquanto equivoco e malevolo ed è evidente come non possa esserci particolare della vita della moglie che gli sfugge, la vuole tormentare, renderle impossibile il diritto alla difesa, privarla del figlio. Ma quando il Franceschi afferma che non si tratta più di onore, sono soprattutto i diritti del bambino ad essere considerati: decidendo della sua illegittimità, prima di averne le prove fondate, cosa praticamente impossibile da dimostrare nella presente situazione, si spoglierebbe una creatura, incapace di difendersi, in un sol colpo dei suoi diritti naturali e civili[2], prima ancora che venga alla luce.

Sotto il profilo umano, si tratta sicuramente di uno dei momenti più alti del Franceschi. Un velo di amarezza cala su una società che, per vano orgoglio o interesse, non ha scrupoli a ledere diritti e sentimenti. Sono poche le parole sul bambino, poche, ma vibranti, accese di una sensibilità delicata e del senso profondo di una giustizia, che deve, per natura e missione, saper esser più forte degli uomini forti.

I diritti di un bambino

“Serenissimo Principe

Ill.mi ed ecc.mi sig.ri Capi dell’eccelso Consiglio di Dieci.

1789 primo febbraro

Il primo ricorso umiliato a questo eccelso tribunale nel decembre passato dell’avvocato Antonio Maria Gini, accusando di violata fede e d’illegittimo concepimento la propria moglie, Anna Cavazza, non ad altro tendeva che all’interina provvidenza di farla passare dalla comare levatrice Antonia Valentini, alla Bragola, sino al di lei parto, dove fosse così preservato l’onore di una onesta famiglia, salvi in progresso tutti quei provvedimenti che da VV.EE. saranno riputati opportuni e necessari.

In comprobazione delle cose introdotte nominò cinque testimoni, dopo l’esame dei quali fu comandata ed eseguita la traduzione della donna alla casa della comare Valentini predetta.

Ora, con un secondo memoriale egli implora che venga precettata la comare stessa “a dover al momento del parto (sono sue parole) consegnare a persona, che sarà dal marito indicata, non già da essi prescelta, la creatura, che sortirà alla luce, onde con modi cauti, e senza sotterfugi ed inganni, abbia ad esser passata al pubblico Ospitale della Pietà, con un sol segno, da non esser consegnato che al marito, o a questo eccelso tribunale, se lo comandasse”. L’oggetto spiegato di questo secondo passo è quello di prevenire l’indebito discapito di un altro ragazzo legittimo, che vive in seno paterno, e che deve avere una onesta educazione.

L’ossequiata commissione poi 21 gennaro spirato ci prescrive espressamente d’informare sopra l’intero contenuto di esso memoriale e delle relative carte, che abbiamo trovate congiunte al medesimo. Quindi, non trattandosi più di prestar una interinale provvidenza all’onore, come fu richiesto a principio, ma di decidere, o almeno di preparar li mezzi della decisione, sopra li diritti naturali e civili dell’uomo, e di uomo oggidì impotente a difendersi, VV. EE. vorranno benignamente permettere che dall’uffizio nostro si entri nella giusta analisi di tali carte, onde riconoscere se vi è fondamento sufficiente per esaudire l’istanza.

La imputazione è di adulterio e d’illegittimo concepimento, e questa è la base del fatto sopra il quale si piantano ambidue li memoriali. Cinque testimoni, e non altri furono esaminati, e tutti cinque prodotti dal marito. Le loro deposizioni, sebben varie in alcuni punti, parzialmente concordano in due asserzioni: l’una, che per motivi di salute, ed anche per disgusti insorti fra loro, il marito viveva separato di letto e di stanza, da molti mesi, dalla moglie. L’altra, che essa medesima, ragionando della sua gravidanza, aveva affermato che era incinta d’altra persona, spiegandosi di aver così voluto vendicarsi del marito. Tutti cinque per altro parlano sulla fede delle voci intese o dall’uno, o dall’altra, o da ambedue, le quali, essendo voci delle parti interessate ed esistenti in uno stato di reciproca avversione, la sapienza di VV. EE. intende meglio di noi qual peso meritino sulle bilance della giustizia. Quello dei testimoni, che più degli altri depone con qualche osservabile senso, gravando la condotta della donna, è un prete curato di Santo Angelo, il qual è anche il solo, per cui, nel primo ricorso, domandò il marito che gli fosse permesso di avvicinarla.

In questi costituti si qualifica generalmente, e con parole vaghe, la donna per dissipatrice, molesta e capricciosa, ma non si propone alcun suo fatto particolare in linea d’incontinenza. Nessuno dei testimoni è giurato, di nessuno è notata l’età, nessun indizio è somministrato del colpevole o dei complici, nessuno delle circostanze particolari, che possano dar traccie alla giustizia, né antecedenti, né susseguenti, né di luogo, né di tempo, né di figure sospette in un delitto impossibile a commettersi, senza la cospirazione e l’opera almeno di due. Uno solo degli esaminati nomina con dubbietà una figura come nominata a lui dalla donna, e quasi ritratta immediatamente il suo detto, perché questa, parlando poi con altre persone, imputò alcuni altri. Variano ancora le deposizioni sul preciso tempo della divisione di stanza e di letto, poiché chi lo asserisce di quattordici mesi, chi di due anni, e chi di un anno e più. Variano pure sulle cause del dissidio fra coniugi, poiché alcuno le attribuisce in termini generali ad una dissipante e capricciosa condotta della donna, taluno anche ad un cieco impeto di gelosie in essa suscitatesi dalla condotta del marito. Comparisce alquanto fosco il cenno della inferma salute del marito come una delle cause del suo ritiro dal letto comune, poiché nessuno qualifica qual malattia fosse, se fu breve, se continua, ovvero lunga per tutto il corso dei quattordici mesi. Il costituto solo del dottor Rocca, medico napoletano, tenta di prevenir la giustizia, con l’accusa e con la difesa di questo particolare. Dice che il marito è caduto ammalato nell’intervallo di alcuni mesi, nei quali esso medico si trovò lontano da Venezia. Poi soggiunge, che la moglie imputava al marito di averla affetta di morbo gallico, ma che, essendo sempre stato alla di lui cura, può assicurar alla giustizia, che egli era lontanissimo da simili affezioni, il che forma una contraddizione col tempo della sua lontananza. A tutto ciò si aggiunga che nessun famigliare, o altra persona vicina, fu introdotta per dar maggiori lumi alla giustizia in una querela, dove li domestici e li vicini sogliono essere più a portata d’ogni altro per sapere l’interno delle famiglie. Nessuno degli altri testimoni introdotti nelle deposizioni dei primi venne esaminato e manca in una parola il fondamento essenziale di prove e di presunzioni giuridiche per formar un giudizio.

Non potranno in oltre fuggire alle considerazioni mature di VV. EE. le altre circostanze che possono concorrere in questo caso, per diminuire li sospetti e chiudere la strada alle presunzioni. Sono fatti concordemente deposti dal marito e dai suoi testimoni, che il concepimento è seguito, mentre li coniugi abitavano sotto un medesimo tetto. Che la donna fu insinuata dalla stesso marito a partir dalla casa. Che essa vi oppose, in luogo di fuga o di pronta condiscendenza molte e forti resistenze. Che dalle persuasioni del marito e dei mediatori venne indotta a portarsi dalla prima comare Costantini alla Giudecca. Che, distaccatasi da colà per muliebri disgusti e ritiratasi in altra casa a Santa Maria Zobenigo, venne, pure sopra le istanze del marito, tradotta e consegnata alla seconda comare Valentini alla Bragola. Che il marito volontariamente supplisce al di lei mantenimento. Alla forza di questi fatti si congiungono altre due circostanze: l’una, che nell’atto della seconda consegna essa dichiarò al fante del tribunale il desiderio di ricevere li suoi avvocati difensori, dando così indizio di voler usare opportunamente le sue ragioni e di non voler perire indifesa; l’altra, che il marito domanda nel secondo memoriale di far portare la prole che verrà in luce all’Ospitale della Pietà, ma col solo mezzo di persona da lui stesso indicate, e con un segno da custodirsi pure da lui, immaginando forse così di poter distinguere il feto spurio dal legittimo, e, nel tempo stesso, esponendosi con tal modo equivoco a prepararsi li mezzi di maggiori inquietudini, se verrà un giorno in cui le parti si trovino in una più libera e formale contestazione.

Dopo questo esame sulle carte, che VV. EE. si degnarono di farci comunicare, resta soltanto a farsi qualche breve riflessione sopra due argomenti tratti dalle voci del marito accusante e della moglie accusata di una colpa, la quale è di prova difficilissima, secondo li principi della criminale giurisprudenza. L’argomento del marito è preso da sé medesimo coll’affermare che, da più di quattordici mesi vivendo separato di stanza e di letto, non si prestò mai agli uffizi del matrimonio. L’altro è la propalazione fatta dalla moglie di aver concepito d’altro uomo. Il primo non è che una semplice asserzione dell’accusatore, mancante di prove, ed è anche negativa. Per provare l’illegittimità del parto, farebbe di mestieri provare una precedente lontananza del marito fuori del paese, almeno per lo spazio di dieci, o di undici mesi, ovvero di una malattia tale sofferta per un eguale periodo, che lo avesse inabilitato assolutamente ai doveri matrimoniali. Ma nel caso presente non si allega né lontananza, né malattia della prefata qualità. Anzi, risulta per contrario che egli conviveva con la moglie nella stessa casa dove potevano i coniugi trovarsi facilmente(?) insieme anche senza l’intervento di testimoni e senza l’uso d’una stanza e di un letto comune. Se un figlio nasce in costanza di matrimonio, il gius presume che il padre sia il marito: Pater est is, quem nuptia demostrant.

Il secondo argomento, dedotto dalla sola propalazione imputata alla moglie, quando sia posto al confronto delle cose qui sopra considerate, non si riguarda per sufficiente a istabilire né la certezza del delitto, né la illegittimità della prole. Le voci di una donna estremamente adirata, che infama se stessa in faccia del mondo e che pubblicamente si protesta di ciò aver fatto per recar dispiacere al marito e per vendicarsi dei torti da lui ricevuti, sono voci più di rabbia, di furore, di odio e di frenesia che di ragione, di verità, di mente sana e di animo consigliato. Perciò secondo li dottori dell’uno e dell’altro diritto, dei quali nell’unito foglio si rassegnano le dottrine, non meritano alcuna fede, quando siano deficienti di prove legali. Nel presente caso mancano sin’ora tutti li presidi delle leggi per renderla convinta della colpa asserita, o per confrontare una confessione, che sarebbe soltanto fuori di giudizio, e per ciò detta estragiudiziale. E questa pretesa confessione, ancora viene contraddetta dal medesimo fatto delle sue lunghe resistenze innanzi di partire dalla casa del marito e dalla indicazione fatta al fante di poter ricevere gli avvocati suoi difensori nell’altra casa, dove fu tradotta per comando del tribunale.

In tanta oscurità, dubbiezza e contraddizione di fatti, di sospetti e d’asserzioni, difficilmente può affacciarsi all’occhio della giustizia una sicura base di reità liquidata per autorizzare, senza pericolo di errore e di reclami, la consegna della nascente prole all’Ospitale della Pietà. Con questo passo si deciderebbe della sua illegittimità, innanzi di averne le prove fondate, spogliandola insieme dei suoi diritti naturali e civili. Si condannerebbe la donna senza formale processo e senza difesa, con la conseguenza della sua infamia e delle pene, alle quali dalle leggi sono assoggettate le mogli infedeli. Si condannarebbe l’ospitale negli alimenti di chi è procreato nell’esistenza di un matrimonio. In fine vacillarebbe anche la stessa fama del ricorrente, e non sarebbero per avventura esenti da attacco nemmeno le ragioni dell’altro fanciullo, che il padre intende di preservare, il che è quanto possiamo umiliare nell’esame commessoci di un argomento suscettibile di molti inciampi. Grazie”.


[1] ASVe, Consultori, f. 284, 1 febbraio 1789 m.v.

[2] Secondo l’opinione di Gaetano Cozzi (cfr.  Note e documenti sulla questione del divorzio, cit.), le bellissime parole dei consultori – si presuppone l’intervento del Bilesimo – riguardo al bambino ancora non nato sono “tra le più belle che la cultura e la sensibilità del secolo dei lumi abbia loro ispirato”.