Il saggio di Eliana Biasiolo è un ottimo esempio di come può essere utilizzata una supplica, nel senso cioè di rintracciarne gli esiti e le implicazioni nell’ambito di un percorso istituzionale non sempre facilmente individuabile. L’interesse della supplica inoltrata alla Signoria da Isabella Moscorno di Pola risiede soprattutto nell’allegato che ella presentò: un dettagliato elenco delle spese che vennero sostenute per l’esecuzione del marito. Un documento ‘forte’, che ci introduce nell’ambito di quella giustizia comunitaria contraddistinta da ritualità che miravano essenzialmente a sottolineare valori diffusi. La ricostruzione di questa vicenda ci introduce nell’Istria di fine Cinquecento: un territorio complesso, contraddistinto da popolazioni di diversa etnia e provenienza geografica e, sottoposto in quegli anni, ad una riforma istituzionale da parte di Venezia.
Dalla supplica di Isabella Moscorno, cipriota, di Pola, una condanna capitale nell’Istria di fine ‘500.
di Eliana Biasiolo
Nel 1591 il Collegio di Venezia riceve la supplica [1] di una vedova cipriota residente in Istria nella zona di Pola, Isabella Moscorno, il cui marito, accusato di omicidio, era stato giustiziato. I beni del defunto furono venduti per pagare le spese del processo ed alla vedova fu inoltre chiesto il pagamento delle spese per l’esecuzione capitale. La donna, rimasta col solo sostentamento della sua dote, un figlio piccolo e due figlie ‘da marito’ si appella così alla Serenissima Repubblica chiedendo l’annullamento della vendita di case e terreni e la restituzione di questi alla povera famiglia.
La supplica era uno strumento usato dai sudditi per sollecitare l’intervento della Signoria [2] in funzione di tutela e protezione. Veniva spesso stesa con l’aiuto di un avvocato (Povolo, 2003, XXXVII) ed inoltrata alla presenza dell’organo istituzionale dai supplicanti stessi. Una volta esaminato il documento, la Signoria decideva quale magistratura avrebbe dovuto fornire una risposta in merito a quanto chiesto dal supplicante, trascrivendo la delibera in una ducale e affidandola allo stesso, che doveva poi consegnarla agli organi indicati. La risposta poteva essere chiesta ad una magistratura interna alla città dominante o all’opposto ad una operante nel territorio dello stato da terra o dello stato da mar (solitamente ai Rettori) [3] . Una volta ricevuta la supplica, la magistratura preposta istruiva un processo interrogando i testi indicati dagli stessi supplicanti e istruendo un fascicolo, rimandato poi a Venezia alla stessa Signoria, che decideva infine sul da farsi [4] .
La supplica è un importante strumento della comunicazione politica tra governati e governanti, diffuso nella società europea di antico regime . Le suppliche sono formulate sia a livello individuale che di piccoli gruppi, rivolte all’autorità nella speranza di un aiuto immediato: «ogni aspetto della vita personale, economica, sociale, politica di singoli e gruppi può diventare supplica» (Nubola, Würgler, 2002, 9) [5] . Come sottolinea Cecilia Nubola in un saggio dedicato alle suppliche negli Stati italiani della prima età moderna «attraverso petizioni e suppliche è possibile verificare alcune forme e modalità fondamentali della comunicazione fra società e istituzioni in antico regime e ricostruire i meccanismi di mediazione, repressione, accettazione, pattuizione, messi in atto da principi, sovrani o magistrature in risposta alle richieste sociali» (Nubola, 2002, 21).
Dalla lettura delle suppliche emerge poi l’uso di un linguaggio e di formule particolari, codificate: come già detto, nel caso veneziano, questi testi erano spesso stesi con il supporto di un avvocato. Ma questa impostazione formale non toglie spontaneità al contenuto e non lo rende meno vero [6] .
Nella supplica qui presa in esame la Signoria, ricevuta la richiesta della vedova Moscorno, chiede una risposta al Capitano di Raspo [7] , il cui compito era ora di «raccogliere le necessarie informazioni per rispondere al Collegio» (Povolo, 2003, XXXVIII) e di redigere una risposta contenente il suo parere «su quanto era stato dichiarato nella supplica. […] Tale risposta sarebbe quindi stata inviata per cavallaro o altra persona publica direttamente al Collegio veneziano, il quale avrebbe deciso quale azione intraprendere successivamente» [8] .
Serenissimo Principe [9]
Se la perdita del Regno di Cipro messe noi sfortunati del medesimo in miseria insoportabile fussimo liberamente suffraggati dalla Regia Benignità di Vostra Serenità poi che in luogo della patria case, et terreni furono provisti nella città di Puola, et di case per habitare, et di terreni per sustentarsi. Ma niente giova tutto questo a me meschina Isabella relicta del quondam Marc’Antonio Moscorno poi che doppo le servitù tante fatte da esso mio marito nella perdita del Regno di Cipro per una imputatione d’homicidio li fu tagliata la testa, et io in un ponto istesso privata del marito, casa et terreni: et a poveri miei figliolini innocentissimi li è stato levato il modo da viver. Fu di certo homicidio con altri 3 incolpato lo fortunato [10] mio marito, et tutto che egli pagasse col sangue fatto spetacolo di confusione con tanto danno di me infelice, et due povere sue figliole da marito, et un puto d’età tenera, furono anco i suoi beni venduti per spese de processi, viazi et altro come per la modula la qual apresento si legge cosa insolita, et inaudita in sin qui nel sacravio di questa illustrissima Signoria, et contra alle honeste leggi che li rei siano tenui pagar fino la corda delle ligature posta in essa modula di spese che sono lire 419 soldi 6. Però essendo in questo caso doppo Iddio benedetto tutta la mia speranza infondata nella pietosissima giustitia, et giusta pietà di Vostra Serenità prostrata, humilmente in terra con più lacrime di dolore domando a suoi piatosissimi piedi misericordia, et aiuto per lo scampo mio, et la vita di questi poverissimi innocentini instigati del non suo fallo non essendo cosa raggionevole che o io, o, loro sentino del pecato del padre: onde con ogni maggior reverenza supplico la sua eccelsa bontà, che havendo questi perso il padre con pericolo quanto alli giovani di non perder anco per necessità l’anima e degni veramente della sua pietà che si degni per gratia spetiale concedere ad essi suoi figlioli, et miei figlioli oltra alla mia dote, et gli interessi patiti tutto quello che fu già suo, comettendo all’illustrissimo Capitano di Raspo [11] con sue littere che de suoi beni oltre alla mia dote ne investisca i figliuoli acciò non se ne morino dalla fame, et acciò possino viver, et morire sotto l’ombra felicissima di Vostra Serenità tagliando, et annullando ogni vendita fatta delli terreni et case di essi poveri misersabili: non essendo iusto che li rei pagano con il sangue: et torli li beni per spese, che fino il soler et chiodi sono stà posti in la insolita modula che io apresento. Gratie
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1591. 19 zugno [12]
Che alla soprascritta supplicatione risponda il Capitano di Raspo [13] et ben informato delle cose in essa contenute, visto, servato et considerato, quanto si deve, dica l’opinione sua, con giuramento, et sottoscrittione di mano propria, vista la forma delle leggi. Rimandando le presenti sotto sue lettere, et sigillo, et iuramento
–/– 5 <de sì>
—– 0 <de non>
—– 0 <non sinceri>
Consiglieri
dominus Andrea Bernardo
dominus Sebastian Barbarigo
dominus Vicenzo da Molin
dominus Antonio Morosini
dominus Bernardo Thiepolo.
Questa supplica porta alla luce due aspetti interessanti: la vicenda che conduce alla condanna di Marc’Antonio Moscorno, rivelatrice dei conflitti esistenti nella provincia istriana tra vecchi e nuovi abitanti e l’esecuzione capitale del condannato, raccontataci dalla nota allegata alla supplica, un documento unico nel suo genere che raccoglie le spese affrontate per la realizzazione di questo non usuale evento.
La famiglia Moscorno è di origini cipriote, come molti degli abitanti la zona di Pola. Emigrati da Cipro nel 1571, dopo la perdita dell’isola da parte di Venezia sotto l’avanzata turca furono incentivati al trasferimento in Istria dalla politica di immigrazione, in particolare della popolazione di origine dalmata, attuata dalla Repubblica nel corso del XVI secolo per ridare vita alle campagne istriane spopolate dagli eventi bellici e dalle susseguenti pestilenze e rese incolte per la mancanza di manodopera (Alberi, 2001, 82). Un processo di ripopolamento delle aree rurali dell’Istria si avvia soprattutto dagli anni Venti del Cinquecento con quel «potenziale umano» disposto ad emigrare per motivi economici: inizialmente Venezia si tiene un po’ «distaccata», ricoprendo un ruolo di intermediario, per poi passare, negli anni Ottanta e Novanta del XVI secolo, ad una «gestione diretta» della colonizzazione tramite funzionari delegati in regione (Ivetic, 1997, 85).
I nuovi abitanti (‘cipriotti’, ‘malvasiotti’, ‘napolitani’, ‘morlacchi’) furono alloggiati nei borghi abbandonati, forniti di bestiame e attrezzature per la coltivazione, favoriti nell’assegnazione e nella gestione dei terreni. A metà del ‘500 gli interessi del governo veneziano si concentrarono soprattutto sul territorio di Pola, per il cui ripopolamento venne emanata una legislazione che poi fu estesa al resto dell’Istria. Prima di allora era nei Consigli comunali che si prendevano le decisioni in merito alla concessione o meno dei terreni richiesti dai coloni provenienti da altre zone dell’Istria o da paesi stranieri (Veronese, 1994, 184) [14] . Erano però ancora frequenti i litigi con gli autoctoni, a causa dei terreni da assegnarsi e coltivarsi, che ostacolavano lo stabilirsi dei nuovi coloni o li spingevano ad abbandonare le nuove terre [15] . Il Senato decise così di nominare, nel 1579, un “Provveditore nell’Istria” [16] «con l’autorità di dispensare ed assegnare i terreni incolti secondo la capacità dei nuovi coloni e con l’incarico di procurare loro tutte le cose necessarie all’agricoltura ed al vitto al miglior prezzo possibile». Questa nuova figura è posta a tutela del progetto veneziano di ripopolamento dell’Istria. [17] Il Provveditore diventava inoltre giudice inappellabile nelle cause civili che coinvolgevano anche uno solo dei nuovi abitanti e prima istanza per le criminali, che mantenevano il diritto di appello a Venezia. [18]
Negli stessi anni Venezia avvia un processo di centralizzazione amministrativa che fa di Capodistira il capoluogo dell’intera provincia (a scapito dell’autonomia dei consigli locali). Il 4 agosto 1584 viene istituito il Magistrato di Capodistria: il Podestà e Capitano di Capodistria, coadiuvato da due consiglieri (anch’essi nobili veneziani), avrebbe giudicato in seconda istanza tutte le cause, civili e criminali, sostituendo in questo ruolo i Rettori e la stessa Venezia. Se da un lato il cambiamento sembrava venire incontro a chi non poteva permettersi di presentare appello a Venezia, dall’altro era l’opportunità di controllare Podestà e pubblici uffici dei centri minori (Marino, 1994, 185).
Un nuovo cambiamento avviene il 24 giugno 1589: il Senato, dopo dieci anni, non rinnova la carica di Provveditore in Istria e stabilisce che «essendo la provincia d’Istria assai migliorata il nuovo Provveditore si recasse in quella vece a Corfù (ove era grande la carestia di frumento) e vi restasse per due anni o finché la Signoria lo riterrà opportuno. Compìto questo tempo passerà nell’Istria se vi saranno negozi importanti da finire: fratanto durante questi due anni sarà affidato al Capitano di Raspo il dare spedizione a quelle controversie fra polesani ed altri abitanti». Difatti il Collegio veneziano richiede la risposta alla supplica della vedova Moscorno al Capitano di Raspo, unica autorità in quel momento preposta alla gestione delle cause riguardanti le popolazioni immigrate.
Questa premessa per comprendere l’ambito in cui sviluppa la vicenda presentata nella supplica di Isabella Moscorno che ritroviamo, narrata nei suoi particolari, nella relazione consegnata al Senato da Lodovico Memmo [19] , ultimo Provveditore in Istria, alla fine del suo mandato nel settembre del 1590 [20] . Il Memmo descrive soddisfatto il lavoro svolto per il ripopolamento e la coltivazione del territorio istriano. I terreni assegnati alle nuove famiglie di ciprioti e napoletani a Pola rendono bene, l’aria è più salubre, il controllo sui boschi per evitare il taglio indiscriminato degli alberi in favore del pascolo è sotto controllo e la coltivazione degli ulivi è stata sottoposta a nuove regole. Una volta terminato il resoconto sull’ottimale situazione del territorio istriano il Memmo racconta due avvenimenti che sottolineano il clima di tensione latente che c’è fra in nuovi abitanti ed i polesani. Nella prima narrazione, l’omicidio di un certo Zuanne Minà, ritroviamo i protagonisti della supplica:
Hora parmi di repetire alla Serenità Vostra l’atrocissimo caso (del quale gliene diedi all’hora riverente aviso) d’assassinamento commesso nella città di Pola il mese di genaro passato, sotto spetie di amicitia nella persona del quondam Zuanne Minà [21] cipriotto [22] , et Annizza d’Albona sua massara, ammazzati nella stantia della sua habitatione a tavola apparecchiata, con crudelissime ferite nella testa di pichi et manare, et asportatone poi anco robba et danari; sopra il qual caso havendo io fatto formare diligentissimo processo, per il quale havendo trovato esser stati li traditori Marcantonio et Fabricio Moscorni cipriotti che si hebbero nelle forze, et confessarono il tradimento, li feci decapitare et dividere li corpi loro in quatro quarti da esser appesi alle forche, et Giacomo Moscorno et Giannucio de Rames similmente cipriotti chiamati dalli suddetti per due complici dell’assassinamento et assentatisi, li quali, doppo esser stati proclamati giusta l’ordinario, essendo restati contumaci, furono da me banditi nel modo et colle taglie che mi furono date da questo Eccellentissimo Consiglio. Della qual morte delli suddetti due Moscorni et della lontananza (per il bando) delli due altri sopranominati pare che ne habbi sentito la città di Pola sollevamento notabile, percioché, oltre il caso enorme del tradimento sudetto, si è scoperto poi, che da loro sono stati commessi per il passato molti latrocinii et furti nella predetta città et territorio; oltreché erano capi di fattioni et sedutori di quelle nationi tra le quali havevano causate molte discordie e dispareri. [23]
Lodovico Memmo sottolinea così il suo ruolo di pacificatore e mediatore dei conflitti: il suo intervento ha sgominato una banda di criminali dando sollievo ai notabili di Pola. Proprio in considerazione della forte conflittualità che ancora caratterizza i rapporti tra autoctoni e nuovi abitanti egli rivolge un appello alla Signoria affinché ripristini la figura del Provveditore in Istria, «che temperi et reprima il maligno affetto de’ vecchi verso novi habitatori» e che si prenda carico di assegnare i terreni ai nuovi abitanti tutelandoli affinché non se ne vadano ma spingano altri a stabilirsi in quelle terre.
Conclude informando la Serenissima che ha consegnato, come da istruzioni, tutte le «scritture di quella Provedaria a Raspo», al Capitano Bertuci Bondumier, ma che tale «asportazione di scritture è stata intesa et veduta con grandissimo travaglio et dispiacer d’animo, così dalli novi habitanti come anco da molti vecchi […] perché invero è lor di incommodo grandissimo, convenendo essi per ogni picciol causa far viaggio di 48 miglia, che sono da Pola a Pinguente, ove fa la residentia il clarissimo Capitano di Raspo» (ASVe, 3) e (Notizie Pola,1876 ,403). Aggiunge in fine che molti greci avrebbero voluto fare rimostranze dirette a Venezia [24] e che si sono trattenuti sotto la promessa che l’avrebbe fatto lui per loro conto.
Nonostante le suppliche e l’appello del Memmo il 18 giugno 1592 il Senato veneziano delega al Capitano di Raspo tutta l’autorità riguardo ai nuovi abitanti, alla loro giurisdizione e all’assegnazione dei terreni (Schiavuzzi, 1902, 113) [25] . Egli diventa giudice non solo nelle cause civili ma anche in quelle criminali riguardanti i nuovi abitanti, potere di cui era stato prima investito il Provveditore. «Il Capitano, trovandosi generalmente lontano dai luoghi di residenza dei nuovi abitanti avrebbe dovuto essere più “obiettivo” dei rettori locali che, sebbene veneziani, erano probabilmente più sensibili alle esigenze di chi localmente deteneva il potere», ma al contempo poteva risultare un modo per scoraggiare gli autoctoni ad intentare cause contro i nuovi abitanti, dovendosi recare fino a Pinguente per sostenerle (Veronese, 1994, 188).
Venezia continua dunque a proteggere il suo progetto di ripopolamento dell’Istria, investendo ora la figura del Capitano di Raspo della gestione della giustizia per i vecchi come per i nuovi abitanti, come mediatore e rappresentante di Venezia e dei suoi interessi.
In base ai dati forniti da una nota del 1610, inviata dal Capitano di Raspo al Consiglio dei X, dove vengono elencati i nomi dei «banditi, relegati, confinati et condannati» tra il 1607 e il 1609 (ASVe, 5) si vede come la pena capitale non fosse abitualmente usata. E’ un tipo di pena comunque legata ad un a giustizia di tipo tradizionale, spesso applicata ad elementi esterni alla comunità. La condanna a morte inflitta qualche anno prima a Marc’Antonio e Fabricio Moscorno è da collegare molto probabilmente alla difficile gestione del conflitto tra vecchi e nuovi abitanti: la loro esecuzione sembra infatti riportare la tranquillità nella comunità polesana.
Alla supplica del 1591 è allegato poi un insolito documento attraverso il quale possiamo rivivere questa esecuzione. La dettagliata lista delle spese redatta dal Capitano di campagna per l’esecuzione della condanna a morte dei due detenuti ci permette di conoscere la materiale costruzione di questo “teatro di morte”:
Polica dele spese [26] che sono state fate per le persone dell[i] quondam Marco Antonio et Fabricio Moscorni sina al giorno che furno retenti sina che sono stati condoti a morte.
Prima. Spese per le sue boche al giorno fra tutti dui lire una al giorno et per candele due al giorno datti a Claudio et Zuane che li faceva la vardia monta soldi dui l’una fano in tuto lire una soldi quatro al giorno, sono statti giorni numero 80, fano in tutto: lire 96 soldi –
Spese per eser andatti a Venecia per far la retencione di Janucio de Rames furno per mio conpagno ser Battista de Fabris et statimo zorni numero 20 in viagio conpreso cavalli, nollo [27] di barche et le nostre boche in tutto: lire 62 soldi –
Spese per far far la vardia al mistro di iusticia [28] a fine non scampase giorni numero 5 et il vardiano suo furno Matio Zotarello dal Pian, a lire una soldi quatro, monta: lire 6 soldi –
Spese di bocha fate al ministro di iusticia, zorni numero 5 a lire una al giorno monta: lire 5 soldi –
Spese per far la vardia alli pregioni quando furno intimatolli la morte furno tre vardiani l’uno Mattio Bertoldo, Lucha Scalogna, Juri Pober state giorni tre a soldi dodese el giorno et le spese monta per cadauno lire 1 soldi 16 furno in tutto: lire 5 soldi 8
Spese per far le spese alli sopra nominatti tre giorni et Claudio Iacomo Zuane officiale in tuto: lire 21 soldi –
Spese per essere andatti a far taliar li legni in bosco insieme con Battistella et farlli condur alli luoghi soliti et far li busi, piantar le forche in tutto: lire 10 soldi –
Spese per far il solaro [29] , cioè in tavole numero 14 a soldi diese l’una monta: lire 7 soldi –
Spese in travi, numero 5, tolti da Dimitri Glandin a soldi cinquanta l’uno monta: lire 12 soldi 10
Spese in chiodi da palmento, numero 50, a soldi sedese il cento: lire – soldi 8
Spese in chiodi grosi per ficar li cavaletti, numero 22, a soldi dui l’uno: monta lire 2 soldi 4
Spese per maistranza del solaro a mastro Piero Tananin et conpagni: lire 14 soldi –
Spese in far il zoco [30] per taliarlli la testa: lire 2 soldi 8
Spese in la dalaora [31] et quatro stangate di fero et tener la dalaora in tutto: lire 10 soldi –
Spese in uno cortelazio per squartarlli: lire 8 soldi –
Spese in una manera [32] et dui cesti, due brente [33] per portar fuora li quarti et li interiori: lire 4 soldi 6
Spese in corda grosa per ligar li presoni sulle carrette, paso [34] numero 16, a soldi quatro il paso, monta: lire 3 soldi 4
Spesa in corda sutilla, paso numero 8, per ligar li quarti et cesti ale forche, a soldi 3 il paso: lire 1 soldi 4
Spese in la maza varia et contar [35] il zepo [36] quando furno posti in cepo [37] : lire 4 soldi –
Spese per le carrete de Juanetto et Toni Forlan per condur li pregioni: lire 12 soldi –
Spese per uno cavallo per portar le brente a le forche lire 1 soldi –
Spese per due cavalcature [38] per conpagnar li omeni alla morte lire 4 soldi –
Spese per dar da cena ali omeni che sono stati a conpagnar li omeni a la iusticia et quelli del signor Conte: lire 9 soldi –
Spese in orzo per dar alli cavalli staroli, numero 2: lire 1 soldi 10
Per para [39] dui di vanti [40] al ministro di iusticia et uno saco per stravistirlo et visera, capelo [41] : lire 5 soldi –
Spese in due gatene per meterle in pugno: lire 2 soldi 4
Spese a messere Zan Giacomo Contasini, ceroicho [42] , che li segnò la mano et ligò le gatene: lire 12 soldi –
Spesi et costati al ministro di iusticia per decapitarlli: lire 100 soldi –
Summa lire 419 soldi 6
Tutte le sopra scritte spese sono fatte per me Bortolamio [Bla]nchii [43] Capitano di campagna del illustrissimo eccellentissimo providittor».
La lista inizia con le spese per il vitto (e le candele per la notte) delle due guardie (Claudio e Zuane) che sorvegliarono i condannati incarcerati per ottanta giorni.
La seconda voce racconta di una spesa fatta per il viaggio a Venezia del Capitano di campagna e di un altro uomo (probabilmente un aiutante) per la ‘retencione’ di Janucio de Rames, uno dei quattro accusati di omicidio, che ritroviamo nel racconto della vicenda fatto dal provveditore Lodovico Memmo, il quale lo indica come bandito. Da una supplica rivolta dal de Rames alla Signoria, apprendiamo infatti che egli nel periodo successivo all’omicidio si trovava a Venezia e una volta saputo del bando, si costituì al Consiglio dei X proclamandosi innocente e chiedendo la grazia. Venne incarcerato per due anni e chiese l’invio del fascicolo processuale per potersi difendere dall’infamante accusa. Il viaggio a Venezia compiuto dai due potrebbe essere quindi servito al trasporto di questo materiale e non potendone il de Rames pagare le spese poiché i suoi beni erano stati confiscati a causa del bando, queste vengono addossate alla vedova Moscorno. Dalla supplica il de Rames emerge come una figura particolare rispetto agli altri imputai del processo.
Serenissimo Principe
Mentre io povero Gianutio de Rames, ciprioto, come procurator general della nation cipriota, habitante in Puola, mi ritrovavo in Venetia, agitando alcune cause di essa povera natione contra il Illustrissimo Proveditor dell’Istria, fui di ordine di sua Signoria Illustrissima proclamato per colpa grave et importantissima, et sotto di 3 aprile 1590 bandito absente di tutte le terre et luochi con pena capitale. Subito havuto notitia di questa sententia, confidato nella innocentia mia, feci rissolutione, che fin hora mai ha havuto essempio, di immediate appresentarmi con la propria persona avanti li eccellentissimi signori Capi dell’eccelso Consiglio dei X, et con la propria mia bocca, narando quanto era contra di me seguito, ricercai, che s’io havea conmesso il delitto oppostomi, si dovesse esseguir la detta sententia, ma se all’incontro io fosse conosciuto innocentissimo, non permettessero ch’io fosse ingiustamente condennato. Restorno stuppidi quelli illustrissimi signori di così fatta rissolutione et ordinorno ad uno de loro Capitani che mi accompagnasse nella preggion Valiera, et compassionando il miserabile stato mio, ordenorno quello li parve più opportuno circa la mia sollevatione; onde il illustrissimo Avogador Querini scrisse che fosse mandata de qui la copia del processo formato contra di me, la quale dopo molte longhezze essendo venuta, non si puote havere, non havendo il modo di pagar il costo di essa, essendomi stato per detta sententia bannitoria confiscato ogni mio havere. Il che mi diede occasione di farmi condur molte volte avanti li illustrissimi signori Capi, dimandando con lacrime la mia espeditione. Capitò finalmente esso processo in mano alli illustrissimi signori Avogadori, da quali ebbi rissolutione, che non si poteva far altro delle cose mie, se non venir per via di gratia d’esser realdito. Così io infelice dopo dui anni di preggionia vengo à piedi clementissimi della Serenità Vostra, humilmente supplicandola, che presa la debita informatione da essi illustrissimi signori Avogadori di Comun del detto mio caso, et di quanto le ho io narrrato, si degni farmi gratia, ch’io possi esser realdito et usar delle raggion mie à finché conosciuta la innocentia mia, dopo tanti patimenti et disaggi, la Giustitia possi liberarmi, et nella buona gratia della Serenità Vostra humilmente mi raccomando (ASVe, 6).
La Signoria in questo caso richiede una risposta agli Avogadori di Comun, i quali si dicono favorevoli alla grazia [44] , che sarà poi concessa al de Rames dal Maggior Consiglio nel gennaio del 1593 [45] .
Le due voci seguenti della lista riguardano il ministro di giustizia, ovvero il boia. Oltre alle spese per il suo vitto compare il pagamento di una guardia per sorvegliarlo affinché non fugga. Come ricorda Giancarlo Baronti ne “La morte in piazza” «in situazioni periferiche e particolari ove non esisteva o dove poteva mancare per lunghi periodi quello che si potrebbe definire un boia professionale a tempo pieno, tale incombenza era affidata a individui che attraversavano un periodo di non compiuta integrazione all’interno della comunità, che si trovavano cioè ancora in una condizione di margine o che comunque vivevano in una situazione di isolamento della vita sociale, come ad esempio i carcerati, che alcune volte in mancanza del boia troviamo impiegati per eseguire condanne a morte» (Baronti, 2000, 133). Altre volte assumeva questo ruolo un altro condannato a morte in cambio della grazia oppure «dovevano svolgere l’ingrato compito gli ultimi che si fossero stabiliti in città» (Baronti, 2000, 134), situazione probabilmente verificatasi nel caso qui preso in esame. Fare il boia significava diventare ‘impuro’, rischiare la marginalità e l’esclusione sociale. Da qui forse la necessità di una sorveglianza affinché il carnefice non si sottraesse al suo ruolo.
Un ulteriore rischio era dovuto all’imperizia del boia: l’esecuzione doveva essere impeccabile, senza provocare inutili sofferenze (oltre a quelle contemplate dalle torture eventualmente eseguite prima dell’esecuzione). La posizione del boia vive infatti un paradosso: l’indifferenza verso la sofferenza del condannato dovrebbe riversarsi anche sul boia e sul suo lavoro, ma non è così. Come scrive Spierenburg «a bungled execution usually implied a big risk for him. The risk was greatest during capital executions. Nothing much can go wrong with an ordinary whipping. […] It is a sort of initiation, a rite de passage for both the actor and the victim; though the ultimate one for the latter» (Spierenburg, 1984, 14). Il rito quindi deve essere ben eseguito altrimenti il boia rischia di incorrere nella collera del pubblico spettatore.
La nota prosegue col pagamento di tre guardiani per sorvegliare i detenuti nei tre giorni precedenti l’esecuzione. Richard J. Evans descrivendo alcune esecuzioni capitali della Germania moderna, racconta come i condannati a morte fossero trasportati, nei giorni precedenti l’esecuzione, dalle carceri ad un parlatoio (‘poor sinner’s parlour’) dove potevano essere visitati dai familiari e da un prete, per intraprendere un cammino di pentimento ed accettazione della morte. Qui rimanevano per tre giorni: un evidente richiamo religioso ai tre giorni di permanenza del Cristo nel sepolcro, dalla crocifissione alla resurrezione [46] .
Inizia ora un lungo elenco di tutti gli strumenti resisi necessari per la costruzione del patibolo. Le forche, evidentemente, non sono collocate stabilmente ma vengono preparate ogni volta che servono. Si va nel bosco a tagliare i tronchi necessari per apprestarle, si comprano travi, tavole e ‘chiodi da palmento’ per allestire il palco, che viene commissionato ad una maestranza. Si trasforma così il luogo dell’esecuzione in un teatro, dove la folla potrà assistere allo spettacolo (Baronti, 2000, 248).
Si acquista il ceppo (zoco), dove verrà tagliata la testa ai condannati e si fissa l’accetta (dalaora) con quattro stanghe di ferro, quasi a costruire una sorta di ghigliottina.
Come apprendiamo dal racconto di Lodovico Memmo ai due condannati fu tagliata la testa ed i loro corpi furono poi squartati. Ritroviamo infatti nella lista delle spese effettuate un coltello (cortelazio), una mannaia (manera), due ceste, forse usate per accogliere le teste dei due decapitati e due grossi mastelli (le brente) atti a contenere i quarti dei corpi e le interiora. Dopo la morte per decapitazione si assiste ad un «rituale di “distruzione” del corpo del condannato, squartamento e affissione dei quarti nei luoghi che ne avevano visto le gesta delittuose» (Baronti, 2000, 211). Come sostiene Evans, solitamente «a number of the more severe variants of capital punishment required the display of the head and body of the offender after death, not so much as a simple means of advertising the majesty of the law, as an additional, final form of degradation and dishonouring of the malefactor» (Evans, 1996, 87).
Un rituale simile lo ritroviamo in una sentenza del tribunale di Tolmezzo datata 1539, contro Piero Basso, accusato di omicidio: « Avanti de noi constituido, sententiamo, condennemo et dichiaremo chel sia per il maistro de la iustitia condutto via de qui, in la piaza suso il pulpito a tal effetto fabricato et lì stante la multitudine del populo intorno sia per lui scopado, morto et asquartado, tal mente che l’anima sua se separi del corpo. Et poi levati de lì li quarti siano condutti ale forche preparate et lì per esso maistro de la iustitia atachate romagnano; a consolation dei boni et corretion dei cativi, se ne sonno. Et così disemo, sententiemo et dechiaremo in questi et ogni meglior modo, via ecc. che meglio savemo et possemo, dando gratia a Dio » (Povolo, 2000, 11-13) [47] .
Il rito patibolare segue un rigido protocollo rituale non scritto e forse nemmeno totalmente presente a livello cosciente, che ha degli aspetti del rito sacrificale: i resti del corpo del condannato sono ritenuti dotati di poteri curativi, ma anche pericolosi perché potenzialmente utilizzabili per dei malefici [48] .
La lista continua con l’acquisto di alcuni metri di corda sottile per legare i quarti dei corpi smembrati alle forche. La spesa per un cavallo che trasporti le brente (i mastelli) contenenti i resti dei corpi fino alle forche dimostra la loro collocazione in punti differenti rispetto al luogo dell’esecuzione.
Due “carrette” con due “cavalcature” vengono utilizzate per trasportare i condannati dalla «conforteria» [49] al patibolo: vi sono legati con della “corda grossa” e sono scortati da alcuni uomini.
Per immobilizzare i condannati sul patibolo vengono usate delle catene, poste alle mani dei condannati dal medico (ceroicho) e dei fermi di ferro alle gambe per impedirgli di camminare.
Tra i diversi oggetti nominati nella lista compaiono dei cavalletti e delle mazze (‘maza varia’): un’ipotesi è il loro utilizzo al fine di torturare i condannati prima di infliggergli la morte. Un rituale di «buona violenza» e non di violenza brutale come invece è considerata ad esempio quella provocata dall’imperizia del boia (Baronti, 2000, 339).
Questa macabra lista si conclude, come è iniziata, con la figura del boia: dopo gli strumenti del mestiere gli è fornito il travestimento: un paio di guanti, una tunica (‘saco’) per coprirlo, una visiera e un cappello per nascondergli il volto. «La maschera del boia, quella che tutti i boia sono costretti ad indossare, è quella che è stata elaborata dalla società per prendere adeguate distanze, per marginalizzare nettamente, per isolare dal consesso collettivo coloro ai quali sono stati affidati compiti necessari ma inconfessabili»(Baronti, 2000, 342). Un compito fruttato al nostro boia 100 lire.
La supplica della vedova Moscorno documenta, con una precisa fotografia dell’evento e della sua preparazione, un’esecuzione capitale nell’Istria di fine Cinquecento. Un gran «spetacolo di confusione», come si legge nelle sue supplicanti parole, che ristabilisce l’ordine sociale punendo pubblicamente degli uomini colpevoli di aver turbato con la loro condotta la vita della comunità, ma riversa sulla donna e sui suoi figli, oltre all’onta del misfatto del marito anche un peso economico insopportabile da cui solo l’intercessione della Serenissima l’avrebbe potuta sollevare.
Fonti e bibliografia
ASVe, 1 – Archivio di Stato di Venezia (ASVe), Collegio, Risposte di fuori, filza 344
ASVe, 2 – Collegio, Notatorio, registro 54, c. 116
ASVe, 3 – Collegio, Relazioni Provveditori, busta 71
ASVe, 4 – Capi del Consiglio dei X, Giuramenti dei Rettori, anno 1590
ASVe, 5 – Capi del consiglio dei X, Banditi, busta 3.
ASVe, 6 – Ufficio della Bolla Ducale, Grazie del Maggior Consiglio, Filza 22, anni 1591-92.
ASVe, 7 – Arbori de’ patriti veneti, a cura di M. Barbaro.
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Alberi, D. (2001) : Istria. Storia, arte, cultura. Trieste, Lint
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Sintesi
Conservata nel fondo Collegio, risposte di fuori, presso l’archivio di Stato di Venezia, la supplica di una vedova cipriota alla Signoria veneziana costituisce il punto di partenza di questo lavoro. La vicenda da cui trae origine, ovvero la condanna capitale di due ciprioti ed il bando di altri due complici per l’omicidio di un morlacco, apre ad una riflessione sul difficile rapporto tra vecchi e nuovi abitanti dell’Istria, conseguente alle politiche di immigrazione attuate dalla Serenissima nella seconda metà del ‘500 e sul ruolo dei suoi rappresentanti (Provveditore in Istria e Capitano di Raspo). La nota delle spese affrontate per l’esecuzione della condanna a morte, che ricadono sulla donna e dalle quali chiede di essere sollevata, si rivela un interessante documento che offre una precisa fotografia dell’allestimento di quel teatro di morte.
Parole chiave
Supplica – Pola – pena capitale – Moscorno – immigrazione Istria
Riassunto
Il saggio parte dall’esame di una supplica, inviata nel 1591 alla Signoria di Venezia da Isabella Moscorno, una vedova cipriota residente nella zona di Pola. Il documento fa parte dell’esteso fondo archivistico del Collegio, riposte di fuori, conservato presso l’archivio di Stato di Venezia, che raccoglie la voce di tutti quei sudditi veneziani che si appellavano alla Signoria per ottenere il suo intervento nelle materie più disparate e alle quali, prima di dare una risposta, la Signoria affidava il compito di un’indagine più approfondita alle magistrature del dominio.
Due gli elementi rilevanti che questa supplica porta alla luce. Il primo inerente la vicenda che sta alla sua origine: Marco Antonio Moscorno, marito della vedova, ed un altro uomo vengono condannati a morte per aver ucciso un morlacco e sua moglie. Altri due complici sono banditi. L’evento è di tale rilevanza da comparire nella relazione di fine mandato dell’ultimo Provveditore in Istria Lodovico Memmo. Una vicenda che si inserisce nel contesto di accesa conflittualità che caratterizzava il territorio polesano, ma più in generale l’intera Istria, conseguente alla politica di immigrazione incentivata dalla Repubblica nei decenni precedenti. Proprio dalle parole del Memmo si capisce come questa condanna capitale, evento raro, sia funzionale al ripristino della pace nella comunità e come la figura del Provveditore (e del Capitano di Raspo poi) a cui la Repubblica aveva affidato l’amministrazione della giustizia per i nuovi abitanti, svolga quel ruolo di mediatore dei conflitti oltre che di rappresentante di Venezia e dei suoi interessi.
Il secondo elemento è legato al documento che si accompagna alla supplica: una nota delle spese affrontate per la messa in atto dell’esecuzione dei due condannati a morte. Un macabro quanto preciso elenco degli attrezzi e della manodopera utilizzati per la costruzione di questo teatro di morte da cui emergono elementi (e termini tecnici) interessanti: il zoco e la manera usati per il taglio della testa, il numero esatto di chiodi e di assi per l’allestimento del palco, gli utensili per lo squartamento dei corpi, le brente (mastelli) per raccoglierli, i metri di corda necessari per legare i condannati e per fissare poi i quarti alle forche apprestate per l’esposizione, il pagamento di un guardiano che sorvegliasse il boia per evitarne la fuga, il costo del suo travestimento, la sua paga. La descrizione di un rito che ristabilisce l’ordine sociale punendo pubblicamente degli uomini colpevoli di aver turbato con la loro condotta la vita della comunità ma il cui peso economico ricade sugli innocenti familiari che si appellano supplicanti alla benevolenza della Serenissima chiedendone un provvidenziale intervento.
[1] La supplica fa parte del fondo Collegio, Risposte di fuori, conservato presso l’Archivio di Stato di Venezia.
[2] La Signoria è composta dal Doge con sei consiglieri ducali, uno per sestiere (assieme formavano il Minor Consiglio) cui si aggiungono i tre capi della Quarantia criminale. La Signoria, assieme a tre commissioni di Savi (savi del consiglio dei pregadi, savi alla terraferma, savi agli ordini) compongono il Collegio (o Pien Collegio)(Maranini, 1974, 297-305). Il Collegio in particolare, era l’organo incaricato di predisporre molta parte delle suppliche, istruendo le pratiche e suddividendole tra i vari uffici per i pareri di merito.
[3] Le due serie archivistiche in cui sono raccolte le suppliche inviate alla Signoria (conservate presso l’archivio di Stato di Venezia) sono: Collegio, Risposte di dentro per le prime e Collegio, Risposte di fuori per le seconde.
[4] «Se il caso era particolarmente interessante si decideva per un suo trasferimento all’Avogaria di Comun, Il processo veniva quindi, in tal caso, avviato ed istruito in Quarantia Criminal. Oppure, più semplicemente, il Collegio poteva incaricare i Rettori di formare il processo con la loro autorità ordinaria o con quella del Senato». (Povolo, 2003, XXXVIII)
[5] Nel testo curato da Cecilia Nubola e Andreas Würgler sono raccolti numerosi saggi frutto di ricerche sulle suppliche e sui gravamina: scrivere alle autorità, inviare suppliche e petizioni è una pratica diffusa ancor oggi ed è rintracciabile in civiltà, cultire ed epoche molto diverse (Nubola, Würgler, 2002, 7).
Le suppliche devono anche essere considerate «parte integrante della prassi giudiziaria in quanto intervengono direttamente in ogni fase del processo civile o penale: da una supplica può prendere avvio un procedimento penale; la supplica viene utilizzata per esporre rimostranze attinenti l’organizzazione del processo, al suo svolgimento, all’esecuzione della pena» (Nubola, Würgler, 2002, 12).
[6] Narrazione e retorica sono ampiamente diffuse in questi documenti, ma non va mai dimenticato il contesto istituzionale in cui si formano. Un documento simile alle suppliche, le lettres de rémission, è stato studiato da Natalie Zemon Davis che analizza i modelli retorici utilizzati per queste narrazioni mettendoli a confronto con diversi modelli letterari (Zemon Davis, 1992).
[7] Il Capitano di Raspo era in quel momento l’autorità locale che in Istria si occupava delle cause riguardanti i “nuovi abitanti”. Si parlerà più approfonditamente di questa figura in seguito.
[8] Fino agli anni ’80 del Cinquecento la risposta veniva rilasciata dai rappresentanti pubblici direttamente agli interessati che, a suo tempo, l’avevano richiesta con la consegna della supplica e della lettera ducale (Povolo, 2003, XXXVIII)
[9] Trascrizione della prima parte della supplica. La trascrizione delle spese sostenute per l’esecuzione capitale è riportata successivamente (ASVe, 1).
[10] Intendendo sfortunato.
[11] Il Capitano di Raspo era il governatore militare dell’Istria, la massima autorità militare e politica di tutta la campagna, al quale ci si rivolgeva per le questioni amministrative e giurisdizionali. Istituito intorno alla fine del XIV secolo, nel 1511, a causa della distruzione del castello di Raspo, il comandante veneto fu trasferito a Pinguente, seguitando ad essere chiamato Capitano di Raspo. Come spiegato successivamente, alla fine del XVI secolo divenne l’autorità istriana delegata, in assenza del Provveditore in Istria, a trattare le cause riguardanti i nuovi abitanti di quella terra. (Alberi, 2001, 226-227) e (Veronese, 1994, 187-188).
[12] Di seguito alla supplica si trova l’indicazione della Signoria su quale organo dovesse dare una risposta.
[13] In quegli anni era Capitano di Raspo Nicolò Salamon (ASVe, 4)
[14] Giuliano Veronese sostiene nel suo saggio che è proprio «in base a questa legislazione che possiamo individuare la figura giuridica del “novo abitante”».
[15] Come sostiene Ivetic «la questione non era di poco conto: ogni tentativo di insediamento aveva una probabilità in più di fallire quando lo scontro con gli autoctoni diventava diretto. La colonizzazione poteva venir vanificata non tanto dal propagarsi improvviso di un’epidemia, quanto dalla rinuncia da parte degli immigrati di lottare contro le avversità di un suolo difficile e contro una comunità o un ceto che teneva in mano, al di là delle competenze dei rettori veneti, le redini della podesteria» (Ivetic. 1997, 99).
[16] Il Provveditore aveva la sua sede a Pola (Benussi, 1925, 399). Doveva essere nobile, appartenere al Maggior Consiglio, aveva un mandato di due anni e doveva essere coadiuvato da un cancelliere (Veronese, 1994,186).
[17] Giuliano Veronese afferma che «Venezia toglieva agli organi di potere locali la gestione del problema, eliminava ogni possibilità di mediazione tra le esigenze dei coloni e le esigenze dei gruppi di potere locali (probabilmente non esistevano in Istria dei ceti dirigenti forti in grado di far pesare i propri interessi e quindi Venezia poté imporre le proprie scelte)» (Veronese, 1994, 185).
[18] Il Provveditore nell’Istria «in tutte le difficoltà dipendenti da essi beni incolti, e nelle cause civili che potessero sorgere fra i nuovi abitanti, o fra questi e gl’indigeni dove si trattasse dell’interesse dei terreni di essi nuovi abitatori, doveva essere giudice inappellabile: nelle cose criminali doveva possedere la stessa autorità degli altri Rettori in Istria, limitata però sempre alle persone che ivi si trovassero per conto di detta coltivazione, ed ai paesani che offendessero i detti nuovi abitanti o da questi fossero offesi nei luoghi della coltivazione e nelle cose da questa dipendenti; riservato in questi casi il solito beneficio dell’appellazione a Venezia”» (Benussi, 1925, 399).
[19] Nell’albero genealogico della famiglia Memmo (o Memo) la nascita di Lodovico Memmo è datata 1526 e la morte nell’agosto del 1591 (ASVe, 7).
[20] L’inizio del suo mandato è del dicembre 1587.
[21] Nella cronologia fornita da Dario Alberi sulla storia dell’Istria compare il nome del morlacco Zuanne Minà, al quale nel 1581 furono assegnati dei campi a Maderno, nei pressi di Pola (Alberi, 2001, 88).
[22] Probabilmente un errore. Oltre al testo dell’Alberi anche la supplica di un altro protagonista della vicenda, Giannutio de Rames, la cui trascrizione è riportata più avanti, dà riscontro dell’origine morlacca di Zuanne Minà.
[23] Il secondo racconto è sul suo fortunato intervento in un conflitto tra greci e polesani (nel quale quest’ultimi si erano addirittura serviti di bravi e spadaccini): «mi trasferii volando a Pola, et giunsi a tempo di placare et acquetare con destro modo quegli animi ardenti di sdegno et di furore, et colmi di rabia, et d’odio reciproco, havendo subito insieme con quel clarissimo Conte levato et prohibito le armi con severe pene a tutti li novi et vecchi habitanti». (ASVe, 3) e (Notizie Pola,1876 ,400-401)
[24] Queste rimostranze le ritroviamo in una supplica inviata da alcuni ciprioti al Collegio nel 1591, qualche tempo dopo la fine del mandato di Lodovico Memmo e il conseguente trasferimento delle funzioni che prima erano proprie del Provveditore in Istria nelle mani del Capitano di Raspo. « La Nation Cipriotta , che nel colmo delle sue miserie, piamente ricevuta nel grembo dalla Sublimità Vostra, hebbe dalla sua pietà per seconda patria la città di Puola […] hebbe da lei un clarissimo proveditore per padre et protettore, l’authorità del quale, mentre durò sì opportuno governo, fu di tanto giovamento che ha sempre raffrenato le insolenze di quelli che continuamente cercavano di disturbar così pia deliberatione et con continue offese aggiongevano miserie all’afflitta sua fortuna. […] Hora che ha parso alla Sublimità Vostra di levarle sì importante et necessario governo, et in tempo che più che mai ne è bisognosa, per conservation di quanto è stato fin hora operato, resta più che mai sbigottita et quasi in estrema desperatione, vedendosi per ciò necessitata overo di abbandonar affatto l’opera già reddutta a perfettione con sommo studio et dispendio della Serenità Vostra, overo restandovi esser preda di quelli che con coperte insidie han sempre aspirato a far che ci sia levato questo santissimo governo, et impedir il corso di sì lodevol opera tanto commoda alla Serenità Vostra. […] Et se ben il rifugio del clarisissimo Capitano di Raspo è ottimo, nondimeno è di tanto incommodo et spesa che sarebbe il continuarlo l’ultimo suo esterminio. […] Perciò questa povera et afflitta Natione ha commesso a noi suoi capi che debbiamo comparir a’ suoi piedi, et genuflessi supplicarla che si degni riguardar con occhio di pietà le nostre calamità et in stato così misero consolarci, restituendone il governo et tutella di un clarissimo proveditore, il quale con amore et paterna affettione ne diffenda dall’insidie di quelli che con sommo studio, non attendeno ad altro che alla distruttion nostra. Il che serà ancho di non lieve benefficio publico per la conservatione dei boschi di quella Provincia, li quali da doi anni in qua, che restò senza il governo del clarissimo proveditor, sono stati infinitamente dannizati et quasi ruinati dalli pascoli delli animali di stati alieni» (ASVe, 1).
[25] L’autore nel suo saggio in una nota all’avvenimento afferma che «diede occasione a ciò anche l’omicidio perpetrato dai cipriotti Marc’Antonio, Fabricio e Giacomo Moscorno e Giannesio de Rames nella persona del cipriotto Zuanne Minà e di Annizza d’Albona sua serva». Anche qui, erroneamente, Zuanne Minà e indicato come cipriota e non come morlacco.
[26] Su di un foglio a parte rispetto alla supplica e con grafia differente è allegata la nota (di cui si riporta la trascrizione) degli acquisti del materiale e dei pagamenti per la manodopera necessaria allo svolgimento dell’esecuzione capitale.
[27] Noleggio
[28] Il boia (Boerio, 1867a, 416).
[29] Il dizionario riporta solo il verbo “solàr”: fare il palco o il solaio. es: solar una casa (Boerio, 1867a, 671).
[30] Nell’accezione di ciocco, ovvero ceppo o pezzo grosso di legno. Esiste anche la dicitura “zoco da carer”, ovvero “trespolo dei carradori”: era un arnese intelaiato su quattro piedi usato per collocarvi sopra le ruote per serrare i quarti (Boerio, 1867a, 814).
[31] Voce antica di «daldùra: sostantivo femminile dal significato di scure o accetta. Specie di scure con manico corto usata dai falegnami e dai Carradori» ovvero carpentieri (Boerio, 1867a, 216).
[32] Nell’accezione di mannaia: dicesi propriamente il coltello con due manici usato dal maestro di giustizia per tagliar la testa (Boerio, 1867a, 393).
[33] «Brenta: mastello da travasadori», ovvero un recipiente per liquidi usato da coloro che travasavano il vino, o il liquore, da una botte all’altra (Boerio, 1867b, 18) e (Boerio, 1867a, 765).
[34] Il paso, ovvero “passo”, è una misura di lunghezza. A Venezia 5 piedi fanno un passo (circa 170 cm). La misura di un piede è di circa 34 cm.
[35] Annoverare, numerare (Boerio, 1867a, 191)
[36] Vedi “cepo”
[37] Dicesi cepo o balza «delle specie di pastoie di ferro, che si pongono alle gambe di alcuni carcerati o condannati» (Boerio, 1867a, 159).
[38] «Cavalcatura: bestia da cavalcare». Il termine qui usato indica probabilmente il trasferimento dei due condannati dalle carceri alla forca tramite delle “carrette” trainate da due cavalli (Boerio, 1867b, 25)
[39] «Per (coll’e aperta) s. m. e nel plurale Pera: Paio; Paro; Coppia. Due della stessa cosa» (Boerio, 1867a, 491).
[40] «Dicesi ancora per idiotismo in vece di guanto» (Boerio, 1867a, 778).
[41] Ovvero cappello (Boerio, 1867a, 133)
[42] Chirurgo (Boerio, 1867a, 161)
[43] Cognome illeggibile in quanto corrispondente al foro della filza.
[44] «Opinione nostra saria lui esser degnon della gratia dimandata, poi che essendo in libertà si ha posto, confidandosi nella sua innocentia, da se stesso nelle forze per iscolparsi, con patir tanti disaggi; per chè, se all’incontro lui fusse conosciuto colpevole della colpa oppostagli, potrà la giustizia, contra la sua persona, tanto più facilmente haver il luoco suo» (ASVe, 6).
[45] La data esatta è il 29 gennaro 1592 m.v. «La Serenissima Signoria, udita la supplicazione presentata per Jannutio de Rames, cipriotto, et veduta la gratia a lui fatta per il masor consiglio à 14 del presente di poter esser realdito, et come in quello, ha terminato che, stante la gratia sopradetta, per non si attrovar al presente Provveditor in Istria eletto dal masor consiglio, sia esso realdito dal presente Capitano di Raspo» (ASVe, 2).
[46] «The condemned usually remained in the “poor sinner’s parlour” for three days, a period that recalled the three days spent by Christ in the tomb between the Crucifixtion and the resurrectionb. This allowed the prisoner to be visited for the last time by friends and relatives, and ministered to by the clergy. It was striking how the condemned were fed during this time quantities of rich food which, since they were usually poor, thay had probably never seen before in their life» (Evans, 1996, 65-66).
[47] Anche nel lavoro di Evans come in quello di Baronti e Spierenburg troviamo una ricca narrazione di esecuzioni capitali nei territori di Germania, Italia e Olanda attraverso diversi secoli, con similitudini e riflessioni spesso vicine sul ruolo del boia, dello spettatore, della vittima e del rito patibolare in generale.
[48] Il Baronti descrive il diffuso utilizzo del sangue, usato per curare alcune malattie, e del grasso del corpo del condannato, usato per produrre un unguento, del quale in alcune zone al boia era addirittura permesso il commercio (Baronti, 2000, 146-171).
[49] Baronti nel suo lavoro descrive ampiamente il ruolo delle confraternite, che avevano il compito di confortare e accompagnare il condannato alla morte. «L’accettazione della pena, il pentimento, le esortazioni al bene ed al perdono, che vengono richieste e spesso estorte al condannato servono a confermare ritualmente, periodicamente e soprattutto pubblicamente o stretto parallelismi tra gli atti concreti della giustizia umana ed i disegni della volontà divina, quale fondamento ed essenziale prerequisito dell’esistenza stessa e della funzione della cerimonia patibolare, che ovviamente non ha lo scopo di eliminare un individuo ma quello ben più importante di consolidare, attraverso il rituale pubblico, il potere politico e religioso » (Baronti, 2000, 103).
Il saggio apparirà tra breve in “Acta Histriae”, 4 (2010).