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AFFINITA’:Parentela acquisita tramite il matrimonio. |
agnazione._doc.docAGNAZIONE:Il termine agnazione, usato dagli antropologi per indicare la parentela patrilineare, deriva dal concetto di adgnatio o agnatio (dal latino agnasci – ad e nascor, nascere vicino) presente nella cultura giuridica romana sin dalle sue origini. Nel diritto romano l’agnazione è il vincolo di parentela civile esistente tra le persone soggette alla patria potestà di uno stesso paterfamilias, vincolo che sussiste tra tutti i soggetti alla potestà del medesimo pater fra di loro e, rispettivamente, fra ciascuno di essi e il pater. Esso ha effetti giuridici fondamentali nei diritti di successione: in mancanza di designazione testamentaria, viene infatti chiamato a succedere nel patrimonio del defunto l’adgnatus proximus, cui spetta anche la tutela impuberis e la tutela mulierum. Il diritto romano distingue nettamente la parentela naturale (cognatio) dalla parentela civile (legitima cognatio o adgnatio). La prima può esistere senza la seconda, nel caso ad esempio delle donne che hanno figli illegittimi; la seconda senza la prima, come nel caso dell’istituto a Roma particolarmente importante dell’adozione. Solo attraverso il matrimonio legalmente contratto (iustae nuptiae), il legame di sangue e lo specifico rapporto riconosciuto dal diritto civile coincidono. Ma – come ha rilevato Gianna Pomata – “la differenza fra i sessi è al cuore della distinzione fra agnazione e cognazione” [i] . L’adgnatio è la parentela civile basata sulla patria potestas e come tale creata esclusivamente attraverso i maschi. Essi creano simultaneamente cognatio e adgnatio, cioè parentela naturale e parentela civile. Infatti – detto con le parole del Digesto – “gli agnati sono anche cognati, ma i cognati non sono anche agnati; per esempio, il fratello del padre, cioè lo zio paterno, è tanto un agnato che un cognato, ma il fratello della madre, cioè lo zio materno, è un cognato ma non un agnato”. Le donne – anche in presenza di iustae nuptiae – producono solo cognatio e mai adgnatio, essendo escluse dal rapporto di potere che intercorre tra il paterfamilias e i suoi figli maschi. Alla morte del paterfamilias subentra il figlio maschio che solo in quello specifico momento diventa a sua volta paterfamilias [ii] e, attraverso il matrimonio legittimo, riproduce la catena agnatizia in infinitum, estendendo la famiglia già costituita dalla totalità degli agnati. Le figlie, invece, pur personalmente incluse nel legame agnatizio – così come le sorelle o le zie paterne -, non possono perpetuarlo. Se alla morte del padre la figlia è ancora sotto la sua potestas, conserva, in quanto agnata, i propri diritti successori in eguale misura dei fratelli, ma non ereditando il potere del padre non può trasmetterlo ai propri figli, che prolungano invece la linea agnatizia del marito. Come scrisse concisamente il giurista Ulpiano, attivo tra il II e il III secolo d.C., “una donna è principio e fine della propria famiglia”. Con lei si interrompe sia la trasmissione del potere sia la trasmissione del sangue. Anche il concetto di consanguinitas è associato nel diritto romano all’agnatio e non alla cognatio. Consanguinei sono i fratelli e le sorelle nati dallo stesso padre e da diversa madre, mentre i fratelli e le sorelle nati dalla stessa madre e da diverso padre sono definiti uterini. Nella tradizione galenica come già nella tradizione artistotelica è l’elemento maschile, il sangue/seme paterno, a trasmettere il sangue al frutto del ventre materno. I consanguinei – i figli maschi e femmine di uno stesso padre – costituiscono il “primo anello della catena agnatizia” [iii] e sono chiamati alla successione dopo l’erede designato, subentrando gli altri agnati solo in loro assenza. A ridisegnare il profilo giuridico della parentela civile in senso bilaterale è nel 543 la novella CXVIII di Giustiniano, che elimina ogni distinzione tra agnati e cognati in materia di successione, privando di ogni base legale i privilegi della linea paterna su quella materna e riconducendo quindi la stessa consanguinitas nell’ambito della cognatio. E’ questa nozione bilaterale di consanguineità che il diritto canonico fa propria nell’elaborazione delle interdizioni matrimoniali tra parenti. Ma la riforma giustinianea non scardina – non almeno nel lungo periodo – il principio agnatizio, che trova nel composito e complesso sviluppo del diritto dell’Europa medievale e moderna ancora forti ragioni d’essere. La bilateralità dei diritti successori cozza infatti contro la nuova importanza acquisita dal lignaggio, da una cultura familiare patrilineare precipuamente improntata alla conservazione delle sostanze e del nome. Già largamente documentata in Italia – come osserva Romualdo Trifone – dalle disposizioni testamentarie dell’XI e XII secolo [iv] , la predilezione per i maschi trova un esplicito e diffuso riconoscimento nella legislazione statutaria, che riduce i diritti spettanti alle donne, come risulta assai chiaro dal cinquecentesco caso friulano studiato da Claudio Povolo, dove la dimensione pluralistica del diritto in cui si inscrivono le ambiguità di una prassi successoria complessa emerge con chiarezza. In una “realtà ricca di particolarismi e di autonomie giurisdizionali”, le rivendicazioni di una figlia a succedere nel patrimonio paterno in assenza di fratelli si appoggiano sulle specificità delle consuetudini locali – quelle di un piccolo centro della Carnia, Forni di Sopra -, che garantiscono i diritti ereditari delle figlie nei confronti dei membri maschili del lignaggio paterno, mentre il diritto statutario della Patria del Friuli risolutamente esclude le femmine in favore degli ascendenti e collaterali maschi del defunto [v] . Altri statuti sono meno drasticamente declinati ad conservandam agnationem: gli statuti veneziani, ad esempio, prevedono che “quando il defunto lascia sole figliole senza maschi, esse porzionano in parti eguali”, senza chiamare al posto loro altri agnati e collaterali maschi [vi] . Il favor agnationis, inteso come precedenza dei figli sulle figlie, dei maschi sulle femmine, si insinua e diviene centrale nella complessa gestazione dei vincoli del fedecommesso di famiglia che implica l’inalienabilità dei beni e la loro trasmissione di generazione in generazione. Per evitare la dispersione del patrimonio si affermano anche i fedecommessi individui e cioè favorevoli ad un solo erede, come le primogeniture che beneficiano un solo figlio, con esclusione dei cadetti, istituti peraltro completamente estranei al diritto romano ma progressivamente giustificati e sostenuti dalla dottrina dei giuristi. Tuttavia, neppure nell’uso di tali strumenti forti la voluntas dei testatori risulta orientata – nelle successive sostituzioni – alla completa esclusione delle femmine e in particolare delle figlie e della loro prole mascolina. Se si utilizzano le definizioni elaborate dai giuristi per affrontare la complessa casistica in materia, i maioraschi “agnatizi puri”, in cui sono chiamati “i primogeniti maschi nati da maschi con esclusione delle donne e dei maschi nati dalle donne” non sono i più diffusi – non almeno a Venezia , ove prevale semmai la primogenitura “di linea qualificata”, in cui è chiamata prima la linea dei maschi, ed in difetto, la linea delle donne e dei loro eredi maschi [vii] . Queste disposizioni, come scrive Marco Ferro, non contemplano “la conservazione dell’agnazione, ma la semplice mascolinità” [viii] . Esse confermano la preferenza generalmente accordata alle figlie anzichè ai collaterali maschi che appare a Cooper un tratto comune delle pratiche successorie europee del XVII e XVIII secolo [ix] . Ciò che fa presumere una sostanziale e nondimeno conflittuale inclusione delle donne nel lignaggio. A proposito della primogenitura Trifone ricorda che la presenza delle donne tra gli “aspiranti alla successione” implica “le maggiori difficoltà nell’applicazione di questo sistema successorio” [x] . Se nella trattatistica il ruolo assegnato alle figure femminili rimane in ombra, nella casistica il ruolo assunto dalle donne risulta uno dei più dibattuti e spinosi. Le biografie di Euriemma Saraceno, Anna Ferramosca e degli altri personaggi femminili qui ricostruiti da Claudio Povolo ne costituiscono una notevole rappresentazione.Laura Megna[i] POMATA Gianna, Legami di sangue, legami di seme. Consanguineità e agnazione nel diritto romano, in “Quaderni Storici”, n.s., 86 (1994), p. 303.[ii] THOMAS Yan, La divisione dei sessi nel diritto romano, in Storia delle donne. L’Antichità, a cura di Pauline SCHMITT PANTEL, Roma-Bari 1990, p. 112.[iii] POMATA, p. 310.[iv] TRIFONE Romualdo, Il fedecommesso. Storia dell’Istituto in Italia. Dal diritto romano agli inizi del sec. XVI, Roma 1914, p. 101.[v] POVOLO Claudio, Eredità anticipata o esclusione per causa di dote?, in Padre e figlia, a cura di Luisa ACCATI, Marina CATTARUZZA, Monika VERZAR BASS, Torino 1994, pp. 41-73.[vi] FERRO Marco, Dizionario del diritto comune e veneto, Venezia 1845.[vii] TRIFONE Romualdo, voce Maiorasco minorasco, in Novissimo Digesto Italiano, a cura di Antonio AZARA e Ernesto EULA, Torino 1961.[viii] FERRO, op. cit.[ix] COOPER J. P., Patterns of hineritance and settlement by graet landowner from the fifthenth to the eighteenth centuries, in Jack GOODY, Joan THIRSK, Edward P.THOMPSON (a cura di), Family and Inheritance. Rural society in western Europe , 1200-1800, Cambridge 1976, pp. 192-327.[x] TRIFONE, voce Maiorasco, cit. |
ARCHIBUGIO:Arma da fuoco, di varie dimensioni, con accensione a miccia. La gittata utile non superava qualche decina di metri. Era inefficace in caso di pioggia ed elevata umidità .(a cura di L. Pezzolo) |
ARCHIBUGIO A RUOTA:Arma fornita di piastra d’acciaio scanalata nella sua circonferenza che girando velocemente provocava scintille a contatto con la pietra selce o la pirite accendendo così la polvere d’innesco.(a cura di L. Pezzolo) |
ASSESSORI:Dovevano essere giuristi laureati all’università di Padova. Di numero variabile (da uno a quattro) a seconda dell’importanza della città, erano scelti dal podestà prima di partire per l’incarico cui era stato eletto. Non potevano essere della stessa città in cui avrebbero dovuto svolgere l’incarico e, tranne per deroghe concesse dalle supreme magistrature veneziane, non potevano rimanere nella stessa città per più di un reggimento. Con la loro preparazione e formazione romanistica avrebbero dovuto sorreggere l’attività dei rettori, per lo più digiuni di diritto romano. |
AUDITORI:Magistrati ausiliari “intermedi” che, analogamente agli Avogadori, istruivano i processi di appello, ma solo nelle cause civili: erano non a caso detti anche “Avogadori civili”, anche se ciò non escludeva completamente l’Avogaria da questo ambito, nel quale appunto si verificarono talora dei conflitti di competenze. Con l’estensione dei domini di Venezia in Terraferma, il loro numero venne aumentato e anche il loro ufficio subì la distinzione tra “Auditori Vecchi” e “Auditori Nuovi”(1410), analogamente a quanto avverrà in seguito con la formazione della Quarantia Civil Vecchia (1441) e Civil Nuova(1492), con le quali gli Auditori vennero a rapportarsi con una procedura speculare a quella che si innescava tra Avogaria di Comun e Quarantia Criminal.(a cura di Cristina Setti) |
AVOGARIA DI COMUN:E’ difficile dare una definizione netta e precisa della genesi e di tutte le prerogative di questa magistratura, data la pluralità dei provvedimenti legislativi attuati nel corso dei secoli per circoscriverne le funzioni, tuttavia possiamo individuarne la finalità suprema nella difesa dell’integrità del patrimonio tanto erariale quanto istituzionale della Repubblica di Venezia.Finalità che è venuta a costituirsi in maniera progressiva e inesorabile in un primo momento mediante semplici interventi di esazione fiscale, nonché di “avvocato dello stato” nelle cause civili che contrapponevano quest’ultimo ai privati; per poi concretizzarsi successivamente nella rappresentanza delle istituzioni anche in campo penale, ove l’inflessibilità dei 3 Avogadori (numero che venne definitivamente fissato da una legge del 1314, assieme alla durata della carica, di 16 mesi) si esprimeva nel puntuale rilevamento di vizi procedurali o istanze di incostituzionalità spesso presenti nelle sentenze di primo grado emesse dai vari organi giudicanti nei Dominii “da terra e da mar” o nella stessa Dominante e sovente denunciate dai destinatari di quelle di condanna (tramite appositi provveditori); sentenze, quindi, tali da dar adito all’intromissione dell’avogadore di turno (come prescrive una legge del 1264), il quale appunto, in accordo coi 2 colleghi, accoglieva i relativi ricorsi in appello onde valutarli e deciderne l’esito in base all’”ordine” e al “merito”(ossia in base a questioni concernenti le modalità e l’entità della condanna). Ciò almeno finchè non venne istituita la Quarantia Criminal, a cui venne ben presto demandata la fase del dibattito e del giudizio finale, lasciando agli Avogadori il solo compito di perorare la legittimità dell’appello di fronte ad essa. Se da un lato l’opera di questi magistrati era funzionale alla salvaguardia/imposizione delle strutture giuridiche del centro dominante, dall’altro essa finiva per inficiarne l’efficienza: infatti, data la molteplicità delle fasi processuali nei dibattimenti con procedura ordinaria, e date le dilazioni che il loro imperfetto adempimento comportava, di fatto il ricorso in appello risultava spesso destabilizzante, soprattutto quando costituiva un espediente messo in atto dai rei per invalidare le loro condanne; tuttavia l’importanza della funzione equilibratrice di questi supremi garanti traspare in quei periodi critici della storia veneziana (come il secolo XVI) in cui la preponderanza politica (e quindi amministrativa) del Consiglio dei X rischiò di dare impulso ad abusi non sempre giustificati dall’emergenza, specialmente da quei rappresentanti (come i rettori) che potevano ricevere da esso la delega al rito inquisitorio (v. Cozzi, 1981).D’altro canto la difesa della forma legis, che fu la principale connotazione dell’istituzione avogaresca, era in aperto contrasto con quel pragmatismo semplificante che sembra antropologicamente connaturato al diritto veneto (si pensi all’arbitrium che sta alla base della sua gerarchia delle fonti). Ciò nondimeno, la sua costante affidabilità nell’eseguire incarichi amministrativi eterogenei (dalle esecuzioni delle confische alle sostituzioni dei magistrati vacanti, dalla custodia dei registri matrimoniali dei patrizi al controllo dei capitolari, dal diritto/dovere di presenziare alle sedute di tutti i maggiori consessi sino alle cause ex officio intentate dagli avogadori stessi per piccoli reati come le lesioni o il contrabbando) è indice di quella ciclica esigenza di riequilibrio istituzionale di cui essa è l’evidente garante.Bibliografia :COZZI Gaetano, Note sopra l’Avogaria di Comun, in Atti del convegno “Venezia e la Terraferma attraverso la relazione dei rettori”, Roma 1937.COZZI Gaetano, La giustizia e la politica nella repubblica di Venezia, in Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845.MANZATTO Mila, Una magistratura a tutela della legge: l’Avogaria di Comun, in Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, a cura di C.Povolo, Bologna 2007.POVOLO Claudio, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVIII, in Stato, società e giustizia nella Repubblica di Venezia, Roma 1980, vol I.(a cura di Cristina Setti) |
AVVOCATI:A Venezia, per lungo tempo, non si era voluto che gli avvocati fossero dei tecnici del diritto. La svolta si ebbe solo al principio del Settecento, con l’imposizione per gli avvocati medesimi di addottorarsi presso l’Università di Padova. Con questa riforma scomparve quasi completamente dal Foro veneziano la figura del patrizio avvocato ordinario (gli altri, non patrizi, erano detti straordinari). Lo stesso professor Cozzi notava come «la legge del 1703, con cui si esigeva la laurea dottorale in utroque anche da chi volesse esercitare l’avvocatura a Venezia», costituisse «una svolta importante nella storia del diritto veneto. Essa mirava ad elevare il livello degli avvocati veneziani, oltre che a ridurre il divario tra la cultura giuridica della Dominante e quella della Terraferma» [1] .Nel contesto “lagunare” il ruolo giocato dalla personalità del difensore risultava di estrema importanza. L’obiettivo primario restava quello di persuadere della bontà dei propri ragionamenti giudici dalla preparazione tecnica altrettanto approssimativa e molto più sensibili ad argomenti pratici o a suggestioni emotive. Autorevolezza, risorse oratorie e mimiche costituivano ovviamente strumenti efficacissimi. Anche secondo Carlo Goldoni, avvocato prima e oltre che letterato, un diritto, come quello veneto, «che privilegiava la valutazione di equità, che voleva fossero presenti, nella giustizia, le considerazioni di umana pietà e comprensione, e che proprio per questo non voleva che i giudici fossero dei tecnici del diritto» [2] doveva per forza comportare un’avvocatura di questo tipo. Ben diversa invece si presentava la situazione in Terraferma, ove le città avevano i loro statuti ed ove il diritto comune fungeva da diritto suppletivo. Là il Podestà poteva essere anche persona imperita di leggi: vi erano infatti gli Assessori che gli sedevano accanto a compensare tale impreparazione. La preparazione giuridica era invece richiesta agli avvocati, dato che avrebbero avuto a che fare appunto con tali Assessori (o con giusperiti di fama chiamati a dare «consigli») e che avrebbero dovuto presentare difese scritte con riferimenti a leggi, alla communis opinio o all’autorità di qualche dottore. In realtà anche in Terraferma, per diverso tempo, era stata notevole l’impreparazione con cui gli avvocati avevano esercitato la loro professione. Nel 1668, però, il Senato aveva imposto finalmente un freno a tutto ciò stabilendo che, sia gli avvocati che i notai, dovessero essere laureati; prima ancora, nel 1539, era accaduto lo stesso per Assessori, giudici e vicari. Ma qual era in un tale scenario la funzione svolta dal diritto veneto? Anche a questo riguardo la Repubblica dimostrò la sua proverbiale flessibilità. Non si assistette ad alcun richiamo esplicito all’obbligo di ricorrere al diritto veneto medesimo come diritto suppletivo degli statuti locali; e neppure vi fu una modifica imposta di quegli statuti che elencavano esplicitamente il diritto comune come propria fonte suppletiva. D’altra parte non va dimenticato che se la giurisdizione podestarile era esercitata, oltre che per i giudizi di primo grado, quale organo di appello nei confronti delle preesistenti giurisdizioni cittadine e territoriali, gli appelli delle cause più impegnative si facevano confluire a Venezia: gli appellanti avevano sì il diritto a che le loro cause fossero giudicate sulla scorta della stessa legislazione applicata nei gradi inferiori, ma il fatto era che ci si trovava di fronte ai grandi consigli veneziani, «che quella legislazione passava attraverso il filtro della sensibilità giuridica dei giudici veneziani, e che a sostenere le ragioni dei contendenti c’erano avvocati del foro veneziano, con la loro oratoria e la loro mimica» [3] . Eppure anche nel Dominio, vuoi per varie scelte di comodo compiute dalle parti chiamate a confrontarsi in giudizio, supportate in modo determinante dall’abilità dei rispettivi legali e dal loro efficace ricorso ad ingegnosi tecnicismi, vuoi per le qualità intrinseche riconosciute a talune branche del diritto veneto, lo stesso diritto veneto finì per entrare nella vita forense. Per attuare con successo questa penetrazione nella società, negli interessi ed, in fondo, nella mentalità della Terraferma, il pragmatismo cui la Repubblica ispirava la sua politica del diritto fu ancora una volta decisivo. Senza dubbio, però, l’esperienza derivante dall’impegno profuso nella quotidiana amministrazione della giustizia nel Dominio confermava come in pratica fosse con il diritto comune che ci si dovesse prevalentemente confrontare. In primis perché gli statuti municipali ne costituivano spesso un riflesso. Ma soprattutto perché nella loro attività gli avvocati vi facevano continuo riferimento. Infine, sebbene, come già ricordato, almeno per la Terraferma fosse sin dal 1668 che il Senato aveva prescritto la laurea in giurisprudenza agli avvocati, questo requisito di accesso alla professione non riuscì evidentemente a ripianare in toto una fondamentale differenza che infatti rileva all’origine di numerose variabili che diversificano le stesse difese prodotte: appunto la differenza tra gli avvocati dei centri minori, o li si potrebbe pure definire «di provincia», ed i loro colleghi delle grandi città.Luca Rossetto [1] G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, in G. Cozzi, La società veneta e il suo diritto, Venezia, 2000, p. 14.[2] G. Cozzi, Note su Carlo Goldoni, cit., p. 16.[3] G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani, Torino, 1982, pp. 329-330. |
B |
BANDITISMO:Termine che, pur traendo origine dalla pena del bando, finisce soprattutto nel corso del Cinquecento, per acquisire il significato più estensivo di fenomeno eversivo collegato al disordine sociale e a talune manifestazioni criminose. |
BANDITO:Persona colpita dalla pena del bando. Ovviamente, a seconda della gravità del bando, si definiva pure la tipologia del bandito. |
BANDO:Pena irrogata da un tribunale. La persona che ne veniva colpita doveva allontanarsi dai territori e per un periodo di tempo previsti nella stessa sentenza. Per lo più la persona colpita da un bando che rientrava nei territori da cui era interdetta, poteva essere impunemente uccisa. Si trattava di una pena assai severa che rifletteva le forme di giustizia tipiche dello stato giurisdizionale. Scopo di tale pena poteva essere quella di allontanare definitivamente una persona indesiderata dalla comunità: e come tale poteva essere irrogata anche nei confronti di colui che era presente nel momento della pronuncia della sentenza. Ma la pena del bando era pure prevista per allontanare gli avversari politici, oppure, all’incontrario per agevolare, in assenza della persona verso cui il bando era stato diretto, la composizione dei conflitti tra parentele e lignaggi rivali. |
BANDO A TEMPO:Il bando a tempo era quel bando inflitto per un numero limitato di anni. Si distingueva dal ben più grave bando definitivo ed era generalmente inflitto con l’autorità ordinaria del reggimento. |
BANDO AD INQUIRENDUM:Era il bando inflitto contro un imputato assente, ma nei confronti del quale non esistevano elementi tali da consigliare l’uso del bando ordinario. Il bandito ad inquirendum era interdetto solamente da alcuni territori e non poteva essere ucciso. Se il presunto colpevole si presentava al tribunale oppure veniva arrestato, aveva diritto ad un regolare processo. Trascorsi due anni dalla sentenza il bando diveniva comunque ordinario. |
C |
CAMPATICO:Il campatico era un’imposta che doveva essere versata dai proprietari di terreni che erano stati bonificati nell’ambito dell’attività dei consorzi. L’onere in genere era piuttosto leggero, ma il suo mancato pagamento poteva costituire motivo di sequestro del bene.L’imposta del campatici, tuttavia, è generalmente nota come una tassa ordinaria che, a partire dal secondo quarto del Seicento, colpiva i terreni in base alla loro produttività. Le terre “arative”, cioè, erano sottoposte a un prelievo maggiore di quelle cosiddette “paludose”. Durante il Cinquecento il governo veneziano tentò in più occasioni d’istituire un campatico, ma si scontrò con la dura reazione dei proprietari nobili della Terraferma. A seguito della guerra di Gradisca (1615-17) s’iniziò la riscossione di campatico, che successivamente fu imposto in maniera saltuaria e che divenne regolare verso la fine del XVII secolo.(a cura di L. Pezzolo) |
CANCELLIERE PRETORIO:Faceva parte del seguito del podestà (o Provveditore) con funzioni notarili di grande rilievo. Scriveva nei processi istruiti con il rito inquisitorio del Consiglio dei dieci, escludendo così i notai locali che avevano la prerogativa di scrivere nei processi ordinari. |
CAPI DEL CONSIGLIO DEI DIECI:I tre patrizi che venivano periodicamente eletti nell’ambito del Consiglio dei dieci con funzioni rappresentative e propositive. Avevano il compito importante di introdurre le materie che venivano discusse nell’ambito del Consiglio. |
CAPITANO:Vedi: Rettori. Compito ricoperto da un patrizio veneziano eletto dal Maggior Consiglio. Da non confondere con l’analoga carica di capitano affidata a persone che avevano compiti meramente militari (ad esempio il capitano dei corsi). |
CAPPELLETTI:Cavalieri leggeri reclutati in genere nei domini da mar, impiegati particolarmente nella repressione della criminalità in terraferma.(a cura di L. Pezzolo) |
CEDOLA (ALLA VENETA):La cedola era, a detta del Ferro, un secondo tipo di testamento insolenne: consisteva in uno scritto redatto, datato e autografato personalmente dal testatore e ritrovato presso di esso, o presso un notaio, dopo la sua morte. Dato il suo carattere non ufficiale, la sua validità era subordinata all’esame della Quarantia Civil Vecchia. Bibliografia:FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233 (a cura di Cristina Setti) |
CITAZIONE AD INFORMANDUM:Forma di citazione che non esplicitava chiaramente se la persona che la riceveva era chiamata a presentarsi al tribunale come semplice testimone o come possibile imputato. Si diffuse nel corso del Cinquecento, suscitando spesso proteste e malumori. |
CLAN:Si ha quando l’asse verticale viene esteso al massimo sino a risalire ad un antenato mitico. La relazione genealogica è dunque presunta. |
COGNAZIONE:O Prentela bilaterale. L’opposto di agnazione. Parentela trasemssa sia per via materna che paterna. Si parla in qusto caso di filiaizone indifferenziata. |
COLLEGIO:Detto anche Pien Collegio se interveniva la Signoria: organo giudiziario veneziano composto dai sei Savi del Consiglio o Savi grandi, i cinque Savi di Terraferma e i cinque Savi agli ordini. Aveva competenze amplissime di governo. Ad esso venivano soprattutto rivolte le suppliche dei sudditi. |
COMMISSIONI:Istruzioni consegnate al rettore prima della sua partenza verso il reggimento cui era stato eletto. In genere contenevano disposizioni che gli permettevano in taluni casi di aggirare la normativa statiutaria. Per lo più vi erano inserite leggi emnate dagli organi di governo lagunare. |
Consanguineità: Congiunzione di sangue, ma anche parentela esistente tra individui che si dicono discendenti da un antenato comune. Il dato biologico si confonde inevitabilmente con quello culturale, nella misura in cui gli individui si riconoscono nella loro consanguineità. |
Consiglio dei dieci: Il Consiglio dei dieci sorse nel 1310 per reprimere ogni tentativo di sommossa ai danni dello Stato veneziano ed in particolare per punire i cospiratori della congiura Querini-Tiepolo. Magistratura dapprima di carattere straordinario, destinata poi a divenire permanente a partire dal 1455, il Consiglio dei dieci era costituito di dieci membri, scelti dal Maggior Consiglio tra i nobili veneziani che sedevano in Senato, cui si aggiungeva il Doge coi sei consiglieri ducali e un avogadore di Comun, il quale non aveva diritto di voto, ma svolgeva funzioni per lo più propositive e di controllo. All’interno del Consiglio venivano scelti ogni mese tre Capi – che a loro volta decidevano un presidente, in carica per una settimana –, che rappresentavano stabilmente l’intero consesso, ricevevano le denunce provenienti dalla città di Venezia e da tutti i territori del Dominio, avevano l’iniziativa degli affari, davano udienza tre giorni a settimana e dovevano osservare la contumacia di un mese. All’epoca del processo al doge Marin Faliero (1355) al Consiglio venne affincata una zonta di venti membri (ridotti a quindici nel 1529), destinata in seguito a divenire ordinaria. Sorto per vigilare sulla sicurezza dello Stato e garantire il mantenimento della pace all’interno del Comune Veneciarum, il Consiglio dei dieci estese sin da subito le sue competenze dal campo criminale a quello amministrativo, finanziario e di politica estera. Per arginare l’accentramento del potere nelle sue mani e frenare le tensioni oligarchiche in seno alla classe dirigente marciana, sin dalla metà del Quattrocento (1468) si ritenne necessario precisare e limitare i suoi compiti. Ma l’esiguo numero di patrizi che componeva il consesso e la segretezza della procedura con cui si istruivano i processi penali garantivano rapidità ed immediata efficacia alle azioni politiche promosse dal Consiglio, che finiva inevitabilmente per accrescere i suoi ambiti di attività a danno delle altre magistrature veneziane. La collegialità dell’assemblea, per quanto potesse permettere un accentramento di potere nelle mani di pochi, impediva comunque l’emergere di tendenze autoritarie da parte di uno solo dei suoi membri o della sua famiglia; tendenze che avrebbero potuto minare la natura repubblicana del sistema di potere marciano. Nonostante la correzione del 1582-83 – nella quale venne definitivamente soppressa la zonta e si riportarono le competenze dei Dieci a quelle fissate nella precedente legge del 1468 – e i numerosi tentativi proposti nel corso del ‘600 e del ‘700 per arginare la sua autorità – ne costituiscono un esempio le correzioni 1628, 1655, 1667, 1677 e del 1761-62 –, di fronte all’emergere di problemi di ordine pubblico nella città di Venezia e nei suoi domini, il Consiglio dei dieci divenne il massimo organo politico-giudiziario della Repubblica di Venezia, attorno al quale gravitavano i membri più facoltosi del patriziato lagunare. Di fronte ai sempre più frequenti episodi di violenza che minacciavano l’ordine pubblico nei domini veneziani, a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo esso inaugurò un’attività di delega volta ai rettori disseminati nella Terraferma e nello Stato da mar che finì per imporre nuovi equilibri di potere tra il centro e i luoghi sudditi della Repubblica, tra governanti e governati. BibliografiaA. Da Mosto, L’Archivio di Stato di Venezia. Indice generale, storico, descrittivo ed analitico, Roma, 1937, pp. 52-55;G. Maranini, La costituzione di Venezia. Dopo la serrata del Maggior Consiglio, vol. II, Firenze, 1974 (ristampa ed. 1931), pp. 387-405;G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982, pp. 97-98;(a cura di Claudia Andreato) |
Consiglio dei Quaranta: Vedi Quarantia Criminal. |
Consorteria (nobiliare):Insieme di individui, con valenza giuridica, che, soprattutto nell’ambito dell’aristocrazia era spesso costituito da membri dello stesso lignaggio oppure da singoli proprietari legati da interessi comuni (proprietà in una determinata zona). |
Consultori in Iure:I Consultori in Iure sono delle figure ausiliarie che venivano elette dal Governo della Serenissima dinanzi a congiunture politiche particolarmente complesse, nell’ambito delle quali si riteneva opportuno ascoltare il parere di illustri giurisperiti, di solito provenienti dallo Studio di Padova. La loro nomina fu, sino al XVI-XVII secolo, piuttosto sporadica e indotta prevalentemente da questioni diplomatiche e commerciali; in tale ambito è attestata sin dal XIV secolo la presenza ripetuta di un consultore di stato, la cui elezione, avvenuta a partire dal 1301 per decreto del Maggior Consiglio, inizialmente spettò al Doge con i suoi sei consiglieri, poi al Senato, nel 1541 passò al Consiglio dei Dieci e quindi, dopo una serie di controversie, ritornò in via definitiva al Senato. La sua ufficializzazione però sembra risalire al 1586, allorché l’emanazione di una parte del Senato in cui si provvedeva alla sistematizzazione delle leggi concernenti la materia feudale diede impulso alla stabilizzazione di un consultore ai feudi: è proprio in tale ambito che nel primo Seicento verrà eletto Servilio Treo, il quale venne affiancato da fra’ Paolo Sarpi nel 1606, anno in cui ebbe luogo la difficile contesa dell’Interdetto, che oppose per circa un anno Venezia alla Santa Sede. Quest’ultimo venne assunto definitivamente come secondo consultore, in qualità di teologo canonista, al fine di poter beneficiare della sua ampia conoscenza del diritto canonico ed ecclesiastico; bisognava, come dice il Ferro, “conservare la giusta bilancia delle due giurisdizioni spirituale e temporale”. I campi in cui questi due ambiti giuridici si toccavano o addirittura si sovrapponevano erano infatti molto numerosi (basti pensare ai diritti feudali, alle decime, alle immunità, così come, in campo teologico, alla presenza dell’Inquisizione e alla questione dei libri proibiti), per cui non stupisce che al consultore canonista venne presto affiancato un coadiutore, che nel 1656 venne da questi separato mediante l’incarico di revisore delle carte provenienti dalla Curia Romana (e, più in generale, dallo Stato di fuori); a costui, in qualità di terzo consultore, spettavano anche i pareri sui possessi temporali dei benefici ecclesiastici. Anch’egli, così come i suoi sue colleghi, veniva eletto dal Senato. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.BARZAZI Antonella, I consultori “in iure”, in AA. VV., Storia della cultura veneta, vol. 5/II (Il Settecento), Vicenza 1986, pp. 179-199.COZZI Gaetano e Luisa, Paolo Sarpi, in AA. VV., Storia della cultura veneta, vol. 4/II (Il Seicento), Vicenza 1984, pp. 1-36.COZZI Gaetano, Il doge Nicolò Contarini, Venezia 1958.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233. (a cura di Cristina Setti) |
Contradittori:Istituiti con una legge del Maggior Consilio del 1546, sono dei magistrati nominati all’interno della Quarantia per difendere la legittimità delle sentenze emesse dai giudici di primo grado di fronte alle accuse mosse dagli Avogadori in sede d’appello, forse con l’intento di ridimensionare i loro poteri di intromissione.(a cura di Cristina Setti) |
Controdote: Vedi; Dovario |
Corte pretoria:La Corte pretoria era costituita dagli assessori che accompagnavano podestà e/o capitani nelle città di Terraferma per coadiuvarli nell’amministrazione della giustizia civile e penale. Il loro numero variava a seconda del reggimento cui erano destinati: nelle città di Padova e Verona essi erano quattro; a Vicenza, Bergamo e Brescia tre; a Treviso, Udine, Crema e Rovigo due; a Feltre, Belluno, Cividale del Friuli, Salò e Conegliano uno.Essi collaboravano coi rettori veneziani, vantando delle specifiche competenze: al vicario pretorio – il più importante degli assessori – spettava la giurisdizione civile, il compito di giudicare, in assenza del podestà, le cause emettendo pure la sentenza finale ed infine doveva assistere il padre inquisitore nei processi formati dal Santo Ufficio; il giudice del Maleficio aveva molteplici competenze in materia di giurisdizione penale, dall’istruzione del processo al controllo dell’operato del notaio che seguiva la conduzione del caso e infine, nei casi più gravi, partecipava agli interrogatori; infine il giudice della Ragione e/o dell’Aquila condividevano con il podestà, il vicario e – in alcuni casi – i magistrati cittadini l’amministrazione della giustizia civile. L’amministrazione della giustizia penale era invece di esclusiva competenza dei rettori e della Corte pretoria, con la totale esclusione quindi di magistrati cittadini.Le cariche in cui si articolava la Corte pretoria erano affidate a sudditi del Dominio (a differenza dei rettori che erano patrizi veneziani). Essi erano personale esterno alla città, poiché provenivano da contesti cittadini diversi rispetto a quelli cui erano destinati come assessori, ma potevano comunque vantare una preparazione giurisprudenziale e una cultura di diritto comune che limitavano fortemente l’arbitrium del rettore veneziano e l’intrusione della Dominante.L’amministrazione della giustizia penale poteva avvenire con autorità ordinaria o straordinaria. Qualora si procedesse con autorità ordinaria del reggimento, i processi erano istruiti dal giudice del Maleficio e gestiti dai notai locali. Qualora invece si fosse ricevuta delega dalla Serenissima Signoria, dal Senato o dal Consiglio dei dieci, i rettori e la Corte pretoria erano investiti di un’autorità straordinaria. Nell’attività di delegazione spiccava in particolare la delega con il rito inquisitorio del Consiglio dei dieci, che sottraeva ai notai locali la conduzione del caso, per riservarla alla cancelleria pretoria, dove la formazione dei processi era affidata al cancelliere pretorio e ai suoi collaboratori.BibliografiaG. Cozzi, Politica, società, Istituzioni, in G. Cozzi – M. Knapton, La Repubblica di Venezia nell’età moderna. Dalla Guerra di Chioggia al 1517, Torino, 1986, pp. 205-221;C. Povolo, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII, in G. Cozzi (a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica di Venezia, Roma, 1980, pp. 153-258;C. Povolo, L’intrigo dell’Onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona, 1997.(a cura di Claudia Andreato) |
Costituto: Interrogatorio che si poteva svolgere de plano, con l’obbiettivo di raccolgiere semplicemente informazioni e senza alcuna forma di contestazione nei confronti dell’imputato. Diversamente quello opposizionale si svolgeva con l’obbiettivo specifico di indurre l’imputato a manifestare la verità. |
Costituzioni della Patria del Friuli:Si tratta delle leggi che avevano vigore nella Patria negli ultimi anni del potere temporale dei patriarchi. Furono confermate poi da Venezia.L’elaborazione e lo sviluppo delle Costituzioni sono piuttosto complessi; di seguito si cerca di offrirne una sintesi.In epoca tardo medievale la funzione legislativa nella Patria del Friuli era di competenza del parlamento, un’assemblea nella quale erano presenti rappresentanti della nobiltà, delle comunità e dei giurisdicenti ecclesiastici.I provvedimenti, denominati nei verbali constitutiones, erano elaborati da speciali commissioni, le quali successivamente presentavano il loro lavoro all’attenzione dell’assemblea per l’approvazione. La sanzione definitiva della legge spettava però al patriarca.Fu a partire dal 1366 che, grazie alle richieste del patriarca Marquardo di Randek, il parlamento affrontò il problema di dare una sistematizzazione al diritto fino ad allora emanato. L’ementadito et reformatio antiquarum constitutionum et consuetudinum può essere definita come raccolta e coordinazione di quanto precedentemente stabilito dal parlamento, unitamente alla redazione scritta del diritto consuetudinario nato dalle sentenze rese nei procedimenti del tribunale patriarcale a partire dal secolo XI. Poste a confronto con la precedente attività legislativa, la costituzioni marquardine sono un’opera legislativa di ampio respiro, sebbene non presentino un sistema giuridico compiuto. Fondamentalmente esse riguardavano quei punti del diritto -e più spesso della procedura- che ai legislatori era parso necessario regolamentare.Una prima parte delle constitutiones Patriae Foriiulii formata da 120 rubriche fu promulgata nel giugno 1366; ulteriori aggiunte furono fatte nel novembre dello stesso anno e nel maggio del 1368 (le addizioni constarono rispettivamente di 23 e 17 nuove rubriche). Nulla di definitivo: fino al 1380 ci fu lo spazio per discussioni e correzioni che portarono alla formulazione di 58 nuovi capitoli.Nessuna novità fino alla conquista veneziana avvenuta nel 1420, ma già durante le prime sedute convocate dal luogotenente di Udine, fu posto il problema della riforma delle constitutiones patriae Foriiulii resa necessaria dal cambiamento di regime. Il procedimento era analogo a quello adottato per la prima stesura della raccolta di leggi, per cui nel 1425 furono eletti dei commissari in rappresentanza dei tre stati parlamentari e furono incaricati di abbozzare la riforma. Il loro lavoro si concluse dopo circa un lustro: infatti il 22 agosto 1429 il luogotenente Marco Dandolo sottoscrisse l’atto di promulgazione delle nuove costituzioni. L’opera di revisione però non era completa, e continuò negli anni: si ha notizia di modifiche nel 1437, nel 1446 e nel 1477. Il primo testo a stampa risale al 1482 e, a parte la lingua (volgare veneto-trevisano) non differisce che in qualche particolare dalla successive edizioni in latino, tra loro omologhe, del 1497, del 1524 e del 1565. Rispetto alle “marquardine” furono eliminate 41 rubriche e ne furono aggiunte 68 nuove. Fu tolto naturalmente ogni riferimento all’autorità patriarcale.BibliografiaP. S. Leicht, La riforma delle costituzioni friulane nel primo secolo della dominazione veneziana, in “Memorie storiche forogiuliesi”, vol. XXXIX, 1943-1951P. S. Leicht, Parlamento friulano, Bologna, Zanichelli, 1950(a cura di Michelangelo Marcarelli) |
D |
DELAZIONE DI ARMA DA FUOCO:Azione che indica il portare un’arma da fuoco. |
DELEGAZIONE:Con intento puramente schematico si può affermare che, prima dell’occupazione veneziana, l’amministrazione della giustizia nella Terraferma era condotta sulla base di norme e di leggi contenute negli statuti locali, elaborati per lo più nel XIII secolo e successivamente consolidatisi a tal punto da assumere un’importanza preminente perfino rispetto al diritto comune. Per quanto concerne la giustizia penale, l’antico Ufficio del Maleficio, in cui venivano istruiti i processi poi sentenziati dal Podestà, fu lasciato sopravvivere, anche se la Dominante accentrò nelle proprie mani l’attività giudiziaria più rilevante. Se infatti sia l’amministrazione della giustizia civile che quella penale passarono ai Rettori veneziani e agli Assessori, i quali costituivano la Corte Pretoria, la prima continuò ad essere ripartita tra questi ultimi, il Podestà ed i magistrati cittadini, la seconda invece divenne prerogativa pressoché totale del Podestà e della Corte Pretoria stessa. In virtù dell’azione di controllo esercitata in particolare dal Consiglio dei Dieci, quindi, a partire dalla fine del secolo XVI la giurisdizione penale fu suddivisa in ordinaria e straordinaria o delegata. In caso di giurisdizione straordinaria o delegata lo sviluppo dell’iter processuale era, in termini generici, così riassumibile: taluni casi criminali ritenuti gravi venivano segnalati a Venezia, spesso con corredo delle prime risultanze istruttorie raccolte dal locale Ufficio del Maleficio; a questo punto Venezia poteva decidere di assumere il caso, di restituirlo al Reggimento (con conseguente continuazione del processo presso l’Ufficio del Maleficio medesimo) oppure di delegarlo al Rettore. Con l’autorità straordinaria, Podestà ed Assessori giudicavano per l’appunto i casi loro delegati dal Consiglio dei Dieci, dalla Serenissima Signoria e dal Senato in materie la cui trattazione faceva capo a tali magistrature o in cause di particolare gravità. La delegazione comportava la formazione del processo in Cancelleria Pretoria del Podestà, oppure, se il processo era già stato avviato nell’Ufficio del Maleficio, veniva immediatamente trasmesso alla stessa Cancelleria Pretoria che provvedeva a condurlo sino alla sentenza, pronunciata da entrambi i Rettori e dalla Corte Pretoria. A sovrintendere all’istruzione dei processi delegati era comunque incaricato il Giudice del Maleficio, anche se ogni decreto doveva essere deliberato dalla Corte Pretoria medesima nel suo insieme. Il Senato si occupava per lo più di casi di contrabbando o di materie economico-finanziarie. Il Consiglio dei Dieci, invece, dalla fine del XVI secolo si occupò di tutti i delitti che “avessero assunto connotati politici o che comunque avessero intaccato la vita, l’onore e i beni dei sudditi” [1] . Non va infine dimenticato che, con qualsivoglia tipo di delega, le sentenze pronunciate dai Rettori erano dotate dello stesso valore giuridico di quelle emesse dalle magistrature deleganti. Luca Rossetto[1] C. POVOLO, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII, in AA.VV., Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta. Secoli XV-XVIII, a cura di G. Cozzi, Roma, 1980, p. 163. |
DENUNCIA:La denuncia era l’atto mediante il quale il rappresentante di una comunità (chiamato console nella Riviera), nominato dall’assemblea dei capifamiglia, riferiva al tribunale competente ogni azione che poteva avere rilevanza penale, avvenuta nel territorio di pertinenza della comunità stessa. In altre parole, citando la pratica criminale di Lorenzo Priori, “la denontia è un nontiare al giudice o superiore il delitto d’alcuno, nel qual offitio non sono ammessi per la ragione commune se non gli officiali deputati a tali denontie, sindici, massari, saltari, degani, et altri simili eletti da i communi, li quali hanno obligo sotto debito di giuramento di denontiare tutti li delitti ch’occorrono”. A tale obbligo erano sottoposti anche medici fisici e barbieri. La denuncia doveva essere fatta ogni volta che fossero stati chiamati a curare pazienti che avevano subito ferite durante risse, aggressioni o simili episodi. Chiaro, in questo senso, il Priori, che specificava anche i termini entro i quali i “ciroichi” erano tenuti a recarsi in tribunale: “subito et immediate” nei casi più gravi, mentre per quelli “che sono senza pericolo” c’erano tre giorni di tempo. Si trattava di un obbligo gravoso, e molti erano gli officiali che, o collusi (“persuasi dalla parte rea” secondo il Priori), o nel timore di ritorsioni, ne dilazionavano l’adempimento. I giudici erano naturalmente autorizzati a sanzionare questi comportamenti, in modo che “subito havuta la denontia si possa costituire l’offeso, il quale facilmente con la dilatione del tempo può esser contaminato e la giustitia non può perciò se non con difficoltà venir in luce del delitto”. Bibliografia: G. C hiodi, C. Povolo (a cura di), L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI- XVIII), vol. I, Lorenzo Priori e la sua pratica criminale (trascrizione di L. Menegon ), pp. 11-13. (a cura di Michelangelo Marcarelli) |
DISCENDENZA BILATERALE:Si ha la discendenza bilaterale quando viene calcolata la comune discendenza (e quindi la parentela) sia secondo la linea paterna che quella materna.Vedi: Filiazione indifferenziata. |
DISCENDENZA UNILINEARE:La discendenza che veniva considerata in una sola linea: o la linea paterna o quella materna, ma non entrambe.Vedi: Sistemi di filiazione – Filiazione patrilineare – Filiazione matrilineare – Filiazione indifferenziata o cognatizia. |
DOTE:Insieme di beni e prestazioni fornite dalla famiglia alla figlia al momento del suo matrimonio. La moglie ne conservava il controllo e, soprattutto se pagata ratealmente, era pure lo strumento tramite cui il padre dello sposa esercitava un’influenza notevole sulla nuova famiglia.Vedi: Dovario o controdote |
Dote congrua: Vedi: Exclusio propter dotem |
Dovario:Insieme di beni apportati dal marito a favore della moglie in caso di vedovanza. Assai diffuso in Inghilterra. Era generalmente proporzionale alla dote della moglie (anche se di misura inferiore). Si veda il ccaso di Forni Savorgnan. |
E |
Esoneratione di arma da fuoco: Sparo di arma da fuoco. |
Ex-officio: Iniziativa del giudice nel procedere in casi criminali, indipendentemente dal fatto che fosse stata sporta querela o denuncia |
Exclusio propter dotem: Definizione giuridica attinente alla dote che ha il sapore dell’esclusione in quanto non corrispondente alla quota di legittima spettante alla figlia. |
F |
Fedecommesso:Confuso spesso nel diritto romano con il concetto di sostitutio, che vincolava la trasmissione del patrimonio alla designazione ufficiale di un successore, il fedecommesso è un istituto giuridico di origine antichissima, in virtù del quale venivano posti dei vincoli di intangibilità sul patrimonio trasmesso in via ereditaria: praticamente il fedecommesso ne difendeva l’integralità , vincolandone la trasmissione agli eredi designati (generalmente i figli maschi), che altrimenti, in mancanza di una nomina esplicita, venivano riconosciuti attraverso la successione “ab intestato”. L’imposizione del fedecommesso comportava il divieto di alienare, anche solo in parte, i beni trasmessi all’erede, in quanto era legata fondamentalmente all’ideale della continuità del lignaggio, il cui prestigio ed onore era perpetuato anche in virtù delle sostanze patrimoniali ricevute. La rilevanza del lignaggio, inteso anche in senso molto esteso, era sottolineata pure dal fatto che il testatore prevedeva, in molti casi, che la trasmissione vincolata dal fedecommesso fosse estesa anche ai rami collaterali che discendevano da un ceppo comune. Le disposizioni fedecommissarie prevedevano comunque l’esclusione della linea femminile. Secondo un’ideologia onorifica codificata in quasi tutta Europa, l’identità della famiglia, o della casata, era infatti strettamente connessa alla perpetuazione del nome, garantita dalla discendenza patrilineare: anche così trova giustificazione l’affermazione del Ferro per cui “Il fedecommesso lasciato ai figliuoli o nipoti…i quali sieno compresi nell’ordine dei diletti, compete ai chiamati successivamente, e non a tutti unitamente”.Una sorta di compensazione alla condizione di disparità in cui venivano ineluttabilmente posti gli altri membri della famiglia, in particolare la prole femminile, era il fatto che “Il fedecommesso comprende tutto ciò che perviene all’erede iure hoereditario” ma non poteva comprendere i beni lasciati alle figlie femmine, e quindi anche le loro doti.L’eventuale vendita, permuta o divisione dei beni sottoposti a fedecommesso era concessa solo in pochissimi e precisi casi (come ad esempio particolari condizioni di degrado di un bene). A Venezia, i funzionari preposti a vigilare sul mantenimento dei fedecommessi erano i Provveditori di Comun. Bibliografia:FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233 (a cura di Cristina Setti) |
Filiazione (Sistemi di): Sistemi che tendono a definire di generazione in generazione la parentela tra individui. Da non confondere con discendenza. Un individuo è discendente da due genitori, ma è in rapporto di filiazione solamente con uno di loro. Con il padre nella filiazione patrilineare, con la madre in quella matrilineare. |
Filiazione indifferenziata: Filiazione indifferenziata o cognatizia quando l’appartenenza ad una parentela non è calcolata sul sesso. Tutti i discendenti di un individuo fanno parte del gruppo di parentela e possono succedere a uno qualunque degli ascendenti. Definisce la struttura della parentela caratteristica della nostra società. |
Filiazione matrilineare.: La filiazione in cui i rapporti si stabiliscono solamente in base ai parenti per via femminile e la trasmissione avviene solo tra di loro. Il figlio non appartiene al lignaggio del padre e non eredita da lui. Chi esercita l’autorità è lo zio ‘uterino’ e cioè il fratello della madre. E’ sempre il controllo maschile ad essere predominante, ma l’uomo esercita il controllo diretto sulla sorella e non sulla moglie. Il punto di riferimento sono le donne, ma avantaggio degli uomini. Il marito ha un ruolo defilato. |
Filiazione patrilineare: Tipo di filiazione unilineare. La discendenza è calcolata secondo la linea paterna. In questo tipo di filiazione (come in quella matrilineare) sono gli uomini a dominare, con il vantaggio che il tipo di filiazione li raggruppa. Nel patrilineaggio l’uomo esercita teoricamente un ruolo dominante sulla propria sposa (mentre nel matrilinaggio domina la sorella). |
Forni Savorgnani:Nome collettivo dato alle “ville” di Forni di Sopra e Forni di Sotto, poste nell’alta valle del Tagliamento. La giurisdizione fu acquistata da Ettore Savorgnan nel 1326, e fu da questi inquadrata nella signoria di Osoppo, il cui capitano aveva competenza penale sui due villaggi.La giustizia civile era invece prerogativa delle due comunità. Il giudizio era reso in ciascun villaggio da tre giurati sotto la supervisione del gastaldo (funzionario nominato localmente e confermato da Osoppo) che, come a Tolmezzo, si limitava a chiedere “quid iuris?”. Le contese erano decise in base alla consuetudine locale, cioè una serie di norme tramandate oralmente, che non furono mai messe per iscritto, nemmeno negli statuti redatti nel 1497. Spesso non venivano nemmeno compilati fascicoli processuali, tanto che il primo notaio attestato in loco iniziò a rogare solo negli anni trenta del Cinquecento.“Le sentenze emesse presso il tribunale di uno dei due villaggi potevano essere reciprocamente appellate ai giudici dell’altro”: in mancanza di incartamenti processuali (cosa che doveva verificarsi abbastanza di frequente) la consuetudine prevedeva che il gastaldo si limitasse a inviare due uomini fidati a riferire oralmente ai giudici dell’altro paese.Solo in caso di terzo grado di giudizio, che si celebrava di fronte al tribunale del luogotenente di Udine, si doveva per forza ricorre al notaio per preparare gli atti necessari ad affrontare la causa in un tribunale esterno alle comunità.BibliografiaM. Gaddi, “Amici et amicabili compositori”: l’uso dell’arbitrato in una comunità carnica in età moderna. I due Forni Savorgnan, in “Atti dell’Istituto veneto di scienze lettere ed arti”, CLI; 1992-93, pp. 1129-1159F. Bonati Savorgnan d’Osopo, I due Forni Savorgnani della Carnia e i loro statuti, in “Memorie storiche forogiuliesi”, XLVIII, 1967-68, pp. 115-135(a cura di Michelangelo Marcarelli) |
Fraterna: Insieme di coppie spsoate di fratelli con prevalente funzione economica (come nel caso dei fratelli Corradazzo). |
G |
Giudice del Maleficio:Il Giudice del Maleficio aveva competenza criminale presso la magistratura comunale. L’incarico veniva affidato dal podestà ad uno dei giudici assessori che lo accompagnavano. Il giudice del Maleficio si occupava del costituto degli offesi dopo che la denuncia o querela di questi era stata ammessa, faceva formare i processi dai notai del Maleficio e nei casi più gravi vi assisteva ed esaminava personalmente i testi; era compito del Giudice del Maleficio, al termine della fase istruttoria del processo, di emettere i decreti che costituivano la fase offensiva: il caute ducatur, il decreto di arresto, il proclama, il mandato ad informandum e la citazione a legittima difesa. Assegnava inoltre agli imputati i termini ordinari, il periodo di tempo entro cui dovevano produrre le loro difese. Se il caso era delegato, il Giudice del Maleficio assisteva alla formazione del processo e agli interrogatori degli imputati. Doveva inoltre recarsi sul luogo in cui era stato commesso il crimine (la cosiddetta cavalcata). Assisteva alla tortura degli imputati e se necessario li interrogava seguendo le procedure. In processo poteva esporre il suo punto di vista, che di solito era tenuto in una certa considerazione.(Argelati F., “Pratica del Foro veneto”, Venezia, 1737, fotoriproduzione per la Biblioteca nazionale di San Marco, presso Archivio di Stato di Venezia; Povolo C., “Retoriche giudiziaria, dimensioni del penale e prassi processuale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo Priori ai pratici settecenteschi”, in “L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia”, a cura di Chiodi G. e Povolo C., Cierre Edizioni, Verona, 2004, pp.19-170; Povolo C. (a cura di), “Il processo a Paolo Orgiano (1605-1607)”, con la collaborazione di C. Andreato, M. Marcarelli, V. Cesco, Ed. Viella, Roma, 2003, p.644-645 )[ a cura di Lia De Luca] |
Giudici del Proprio:Come afferma il Da Mosto, “la storia di questa magistratura è una storia di involuzione”. Nata anch’essa verso la fine del secolo XII quale diretta emanazione della curia ducis, ebbe sin dall’inizio una considerevole quantità di attribuzioni giuridiche sia in campo civile che nel penale, distinguendosi dal parallelo ufficio dei Giudici del Forestier (o del Comun), che era preposto alle cause tra Stato e privati, ovvero a quelle coinvolgenti gli stranieri. Successivamente però, con la progressiva creazione di nuovi tribunali e collegi, le attribuzioni dei Giudici del Proprio finirono per concentrarsi sulla sfera civile, nell’ambito della quale essi finirono per trattare soprattutto le successioni dotali (dopo lo scioglimento del matrimonio) e le successioni ab intestato, nonché, per conseguenza, i ricorsi e gli appelli che tali dispute spesso suscitavano: in particolare, venivano loro tramessi i fascicoli relativi ai diritti di prelazione sui beni immobili presenti a Venezia e Dogado, già passati in primo grado per il foro dei Giudici dell’Esaminador. Nei procedimenti penali, le loro prerogative vennero presto assorbite dai Signori di Notte al Criminal (per i crimini meno gravi) e dall’Avogaria di Comun, la quale sottoponeva i reati puniti con pene di sangue, carcere o bando al giudizio della Quarantia Criminal. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll.. (a cura di Cristina Setti) |
Giudici dell’Esaminador:I giudici dell’Esaminador costituivano una delle dodici curie di palazzo nate a partire dalla fine del secolo XII per svolgere molti di quei compiti amministrativi e giudiziari che un tempo spettavano al doge. In particolare ad essi erano state affidate, nel 1204, tutte quelle funzioni di verifica e convalida afferenti alla proprietà di beni immobili esistenti a Venezia e nel Dogado, nonché le questioni successorie relative a tali beni. La risoluzione di queste istanze dipendeva infatti dagli atti registrati nel loro archivio, in cui venivano appunto conservati i contratti concernenti passaggi di proprietà, alienazioni, affittanze, ipoteche, ossia di tutte quelle azioni che dovevano essere da essi necessariamente autorizzate e sottoscritte; sicché, a livello giudiziario, a loro spettava deliberare sulle controversie riguardanti confini o diritti di prelazione. I ricorsi in appello (i cosiddetti “clamori” o “chiamori”) solevano invece affidarli ai Giudici del Proprio, corte più antica e prestigiosa, anche perché gli esaminadori coprivano già una parte della giurisdizione civile: uno dei compiti principali di questi magistrati era, non a caso, l’esame dei testimoni dei processi civili. Ad essi inoltre, supremi patrocinatori del diritto di proprietà, spettavano le istruttorie delle cause relative ai testamenti “per breviario”, destinate poi ad essere giudicate in Quarantia, ovvero, a partire dal 1492, presso la Quarantia Civil Nova. Un’altra loro importante prerogativa fu anche la gestione dei pignoramenti, in seguito a cui mettevano all’asta ciò che avevano sequestrato ai debitori assieme ai beni che questi avevano dato in garanzia (i “pegni”): tra le carte del loro ufficio vi erano infatti anche gli atti di credito, oltre che le copie autenticate dei contratti di loro competenza; senza contare che, dal 1280 in poi, ebbero in definitiva il potere di controfirmare tutti i documenti e i rogiti dei notai. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233. (a cura di Cristina Setti) |
Giurisdizione signorile:Si tratta di una giurisdizione generalmente inserita in un contesto rurale, in cui diritti e privilegi di varia natura, trasmissibili per via ereditaria, erano appannaggio di un signore appartenente a una famiglia nobile. Tra queste prerogative, quella di maggiore importanza era sicuramente la facoltà di amministrare la giustizia, esercitata direttamente dal signore stesso o delegata a un giudice da lui nominato (ad esempio, nella comunità di Muslone l’amministrazione della giustizia civile spettava alla famiglia Londrone).Molto diffuse nella patria del Friuli (dove alcuni signori, che solitamente possedevano il titolo di conte, avevano il diritto di giudicare in civile e penale fino al secondo appello), presenti nei domini veneziani al di là del Mincio e nel Veronese, le giurisdizioni signorili erano praticamente assenti nei territori di Padova e Vicenza: queste città riuscirono fin dall’epoca comunale ad esercitare un controllo capillare sul proprio contado, riservando esclusivamente al tribunale cittadino la facoltà di amministrarvi la giustizia.Bibliografia: C. POVOLO, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, in G. COZZI (a cura di), Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (secoli XV- XVIII), Roma, Jouvenice, 1980, pp. 176-192.C. POVOLO, L’intrigo dell’onore. Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento, Verona, Cierre, 1997, p. 110 e sgg.S. ZAMPERETTI, Stato regionale e autonomie locali. Signorie e feudi nel dominio veneziano di Terraferma in età moderna, in Venezia e la feudalità, Udine, Del Bianco, 1993, p. 34 e sgg.(a cura di Michelangelo Marcarelli) |
Grado di parentela: Modo di computare la parentela. Si distingueva la computazione romana (o civile) da quella germanica (o ecclesiastica). Nella prima si hanno tanti gradi quante sono le posizioni di parentela nel percorso genealogico che unisce un individuo da un altro attraverso il comune antenato. In quella ecclesiastica si calcola il grado di parentela in base al numero delle generazioni che separano due individui dal loro comune antenato. Ad esempio due cugini (figli di fratelli) sono di quarto grado nella computazione latina e di secondo grado in quella ecclesiastica. |
I |
Intromissione:E’ la principale modalità con cui gli Avogadori di Comun e gli Auditori intervenivano sui processi (ma anche su nomine, mandati, proclami, decreti, citazioni e provvedimenti legislativi di vario tipo), sollevando dubbi sulla effettiva regolarità delle procedure. La maggior parte delle intromissioni, in quest’ambito, riguarda la pronuncia delle sentenze di primo grado (ovverosia quelle emesse dai rettori o da giusdicenti locali), spesso contestate da chi ne era danneggiato (quale condannato o quale vittima inappagata) attraverso una supplica rivolta solitamente a uno degli Avogadori; costui decideva se “licenziare” il ricorso, convalidando difatto l’operato del giudice di primo grado, o intromettere la sentenza pronunciata da quest’ultimo. Questa decisione comportava la sospensione della condanna (o assoluzione), previa notifica presso i collegi giudiziari coinvolti, per poi poter esporre, dinnanzi alla Quarantia, le motivazioni di tal atto mediante la formazione di un processo di appello, in cui l’Avogadore si trasformava in un vero e proprio “avvocato dello stato” che accoglieva le istanze dell’attore del ricorso in nome del rispetto della legge. Con la sua arringa finale costui infatti chiedeva il “taglio” della sentenza contestata, che se era ritenuta legittima veniva “laudata”, cioè convalidata; altrimenti, la sua cassazione veniva comunicata nello “spazzo” al giudice di prima istanza, che doveva conformarsi al nuovoverdetto.Bibliografia:v. voce “Avogaria di Comun”(a cura di Cristina Setti) |
L |
Legittima: Quella quota di eredità che spettava ad ogni figlio indipendentemente dalla volontà del testatore. Teoricamente per le figlie la dote doveva corrispondere alla legittima loro spettante. |
Lignaggio: Gruppi di parenti che si considerano discendenti secondo la linea di filiazione (ma esiste anche il lignaggio cognatico in presenza di filiazione indifferenziata). Si estendono genealogicamente a seconda dei periodi storici. Il lignaggio si fa iniziare da un antenato, ma si rifà anche ad uno spazio (estensione su cui vivono i discendenti del fondatore). A diversità del clan, il lignaggio si rifà ad un antenato che la genealogia ricostruisce in maniera precisa. |
M |
Maleficio: Vedi: Giudice del Maleficio. |
Matrimonio clandestino: Prima del Concilio di Trento (e il decreto Tametsi) era lo scambio di consensi (de praesenti) avvenuto senza la presenza di testimoni. Dopo il Concilio di Trento il concetto di clandestinità si modifica. Il matrimonio clandestino è quello che pur avendo i requisiti di legittimità (parroco e due testimoni) avviene però senza le tre pubblicazioni (alle porte della chiesa) previste dal diritto canonico. Come avviene per Laura Maria Ghellini con il suo secondo matrimonio. |
P |
Parentela: Insieme di persone nei confronti dei quali l’individuo (indicato come Ego) si riconosce apaprentato. Può variare in maniera anche estesa. Può considerare solo i consanguinei, ma anche gli affini. La parentela include generalmente un numero inferiore di parenti rispetto a formazioni parentali come i lignaggi. Il calcolo della parentela si calcola tramite il grado. Nella computazione ecclesiastica, assai più diffusa, il numero di gradi che separa due parenti è uguale, in linea diretta, a quello delle generazioni che separano l’ascendente dal discendente; e in linea collaterale alla somma dei gradi che separano ciascuno dei due parenti (di cui si vuole calcolare il grado) dall’ascendente comune (come per Trivulzia Braccioduro e Pietro Saraceno: parenti in quarto grado come dimostrano le genealogie accluse). Ma anche i gradi di parentela variarono nel tempo (Si veda il grado di parentela). Il grado di parentela non indica ovviamente una comunità di vita (come ad esempio tra i più lontani rami Saraceno). Le parentele sono generalmente deboli ed effimere, salvo nel caso in cui non siano rafforzate dall’ideologia del lignaggio e dagli istituti giuridici che le salvaguardano (come il fedecommesso). La genealogia è lo strumento che ricostruisce una detrminata parentela; così come gli istituti giuridici che la accompagnano e pure il palazzo o la casa domenicale. Anche letombe di famiglia in chiese e oratori avevano questa funzione. |
Parentela bilaterale: Vedi: Cognazione |
Parentela descrittiva: La parentela intesa come insieme di termini che designano e mettoni in relazione i parenti. |
Parentela spirituale: La parentela stabilita tramite il battesimo con il padrino o la madrina. |
Parte: Indica un provvedimento di un’istituzione o di un consiglio. Può assumere diverse tonalità: da quello più ampio di legge (come in alcune magistrature veneziane), a quello di semplice decreto esecutivo. La parte solitamente comportava un incipit, più o meno esteso, e poi la successiva delibera, preceduta dalla formula l’anderà parte, oppure va parte. Era seguita sempre da una votazione. Le parti veneziane, oltre ad avere voti favorevoli o contrari, che dovevano raggiungere maggioranze predeterminate a seconda dell’argomento trattato, prevedevano pure una terza scelta: i cosiddetti voti non sinceri, voti cioè di astensione, ma che comportavano, a diversità di oggi, l’obbligo di proporre una delibera alternativa a quella già proposta. La parte, se non raggiungeva il quorum dei voti richiesti, si diceva che pendeva. A fianco della parte proposta si indicavano i nomi di coloro che l’avevano proposta. |
Patrizio veneziano:Patrizi veneziani erano i componenti del gruppo dirigente della Repubblica di Venezia. Fin dagli inizi del Comune veneciarum chiamavano se stessi indifferentemente patrizio, nobile, zentilhomo e gentiluomo. Dal ‘600 si preferirono i termini nobiluomo e nobilhomo (con le abbreviazioni N.H. e N.U., N.D. per le nobildonne), mentre il termine patrizio tornò in auge dopo la caduta della Serenissima. Il gruppo politico dirigente di Venezia si trasformò in nobiltà attraverso una serie di norme giuridiche costituzionali emanate tra il 1297 e il 1323 circa, norme che solitamente vengono aggregate sotto il nome di serrata del Maggior Consiglio. Da questo momento in poi, nobile sarà solo chi apparteneva al Maggior Consiglio, e per essere tale doveva solo discendere da un altro appartenente del Maggior Consiglio. Uniche eccezioni furono le nomine per gratiam (appartenenza a particolari famiglie di principi o famiglie papali, o per particolari meriti a favore della Repubblica, nomine peraltro limitate, straordinarie e diverse volte limitate nel tempo) e le aggregazioni a seguito di particolari momenti della vita della Repubblica (la guerra di Chioggia a fine Trecento, la guerra di Candia a metà Seicento e le due guerre di Morea del 1688-1699 e del 1714-1718). Più volte venne proposto dall’interno dello stesso gruppo patrizio di poter allargare il ceto nobiliare, ma non venne mai concretizzato, nemmeno a seguito del consistente calo numerico dovuto dalla Peste nera. Anzi, dal ‘400 in poi vennero legiferate procedure volte a cristallizzare sempre più il ceto nobiliare. Se dalla fine del ‘200 era vietato l’accesso ai figli illegittimi e dal 1376 anche ai figli legittimati posteriormente, ora si prevedeva che nobile sarebbe potuto diventare solo chi era nato da padre nobile a seguito di legittime nozze con una donna di honesta conditione. A salvaguardare il ceto e ad evitare i brogli sempre più numerosi venne incaricata la magistratura dell’Avogaria di comun. In particolare furono importanti due decreti del Maggior Consiglio, del 31 agosto 1506 e del 26 aprile 1526, con cui vennero istituiti i poi famosi Libri d’oro delle Nascite e dei Matrimoni. In questo modo diveniva più facile il lavoro per gli Avogadori e più netta la distanza tra il gruppo patrizio e i cittadini originari. Una numerosa produzione normativa cinquecentesca inoltre definiva con sempre più cura chi erano le donne abili a procreare figli abili al Maggior Consiglio (ad esempio venivano in qualche modo recuperate le figli naturali dei patrizi). Il gruppo nobiliare veneziano non fu mai un tutt’uno uniforme, ma fin dagli inizi fu riconosciuto dagli stessi componenti la divisione al proprio interno. Nel tardo medioevo e durante il Rinascimento veniva riconosciuta una distinzione tra famiglie (o casate o Case) antiche e nuove. Dal Cinquecento in poi venne posto l’accento più sul censo delle famiglie, riproponendo una tripartizione di ispirazione aristotelica tra poveri, mezani e richi (Sanudo), partizione che nel Settecento venne anche suddivisa in cinque o sette gradi di ricchezza e potere. Essere nobile comportava un particolare dovere: partecipare alla vita pubblica dello Stato, rendendosi disponibile a ricoprire le varie cariche politiche che venivano distribuite dal Maggior Consiglio. Dal Cinquecento in poi la distinzione sempre più netta tra i patrizi benestanti e quelli meno fortunati andava a ricadere sulle scelte degli incarichi pubblici, perché se ricoprire certi incarichi, in particolare i minori, poteva significare ottenere un minimo di sostentamento, accettare gli incarichi più importanti (anche le cariche di rettore nei centri più importanti di Terraferma) comportava un enorme esborso economico.(a cura di Loris Menegon) |
Pena del bando: Vedi Bando |
Pistorese:Arma bianca, pugnale.(a cura di L. Pezzolo) |
Podestà: Vedi: Rettori |
Procedura ordinaria: Vedi: Procedura ordinaria e servatis servandis. |
Procedura ordinaria e servatis servandis:(a cura di Luca Rossetto)In virtù dell’azione di controllo esercitata in particolare dal Consiglio dei Dieci, a partire dalla fine del secolo XVI la giurisdizione penale nella Terraferma fu suddivisa in ordinaria e straordinaria o delegata. Nell’ordinaria la Corte Pretoria ed il Podestà agivano investiti dell’autorità ordinaria del Reggimento, e cioè secondo gli statuti cittadini, con la formazione dei processi assegnata quasi esclusivamente ai notai locali sotto la direzione del Giudice del Maleficio, unico Assessore del Podestà dotato di competenze penali. Nell’attività straordinaria o delegata, invece, i casi criminali venivano assunti dai Rettori in persona e dalla Corte Pretoria, per essere giudicati con autorità delegata da Venezia e con la conduzione burocratica dei casi medesimi da parte della Cancelleria Pretoria. Si assiste quindi, in questo modo, ad un rafforzamento dei poteri dei tribunali locali ad opera di un organo politico-giudiziario come il Consiglio dei Dieci; una sorta appunto di simultanea “operazione di smistamento e di accentramento” [1] , come l’ha efficacemente definita il professor Povolo. Poteva anche accadere che le informazioni dei Rettori, vagliate nella Dominante dalle rispettive magistrature, comportassero una “remissione” delle cause al Maleficio o alla Cancelleria della città interessata, senza alcun accrescimento di poteri, sebbene, pure in questo caso, una certa aura di prestigio e di autorità aggiuntiva si creasse comunque. Certamente le delegazioni erano provviste di caratteristiche diverse a seconda delle peculiarità del delitto e delle persone coinvolte nello stesso. Il Consiglio dei Dieci delegava con la clausola servatis servandis o con il proprio rito inquisitorio. Le delegazioni servatis servandis, non particolarmente diffuse sino a metà Seicento, determinavano un aumento di poteri che si traduceva anche nella concreta possibilità per le magistrature locali di infliggere pene più severe. Il processo delegato veniva continuato in Cancelleria Pretoria da un coadiutore della stessa, con l’assistenza, come già si è osservato, del Giudice del Maleficio (nella realtà dei fatti più spesso con la sua mera supervisione), e, appunto in base ad un procedimento definito “aperto”, contemplava la presenza degli avvocati difensori e la pubblicità dei testimoni dell’accusa e delle loro dichiarazioni. Pur non modificando nella forma la procedura adottata nelle corti di terraferma (“servatis servandis”, cioè, letteralmente, “conservato ciò che deve essere conservato” della procedura statutaria) in realtà venivano ridotti gli ampi spazi di manovra di cui tradizionalmente disponevano le parti, ad esempio agevolando l’attività svolta dal giudice nella fase istruttoria, con il passaggio appunto di tale attività dalla gestione dei notai cittadini a quella della Cancelleria Pretoria.Luca Rossetto[1] C. POVOLO, Considerazioni su ricerche relative alla giustizia penale nella Repubblica di Venezia. I casi di Padova, Treviso e Noale, in <<Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti>>, CXXXVII (1979), p. 488. |
Proclama: Atto solenne, distinto dalla semplice citazione, tramite cui una persona veniva invitata a presentarsi al tribunale. Il proclma veniva solitamente affisso alla loggia pubblica. Nel proclama venivano distintitamente (e spesso con toni altisonanti) elencate le imputazioni a carico della persona cui era rivolto. |
Provveditori sopra feudi:Istituiti nel 1587, ossia pochi mesi dopo la parte senatoria del 13 Dicembre 1586, che diede finalmente una seria regolamentazione della materia feudale nei territori marciani, i Provveditori sopra feudi sostituirono i Provveditori sopra camere nell’esecuzione materiale dei decreti attuativi della suddetta legge. In particolare ad essi venne affidato l’oneroso compito della revisione dei titoli feudali giurisdizionali, che ricevevano l’investitura direttamente dalla Signoria, distinti da quelli censuali che invece erano autorizzati dai Rettori. Successivamente però, data la gravosità della materia e le già numerose incombenze del Pien Collegio, cui questa sarebbe spettata di diritto, i Provveditori vennero stabilizzati (ma ridotti a tre solo nel 1667) e ad essi si delegarono notevoli poteri, come quello, assegnato loro nel 1617, di concedere le investiture, fatti salvi i casi particolari (i feudi del Friuli, del Polesine e di Creta, spettanti al Doge e ad altre magistrature). Per il resto essi istruivano tutte le pratiche relative ai feudi e alle loro investiture, ivi comprese quelle dello Stato da mar, regolandone anche la materia fiscale e le eventuali alienazioni, nonché gli appelli di sentenze emanate da altre magistrature, appelli che eventualmente essi differivano al Collegio dei XX Savi al Senato. Dal 1652 ebbero competenza anche sui feudi ecclesiastici, mentre dal 1673 la loro opera di controllo su titoli (anche di origine straniera) e concessioni venne suffragata dall’adozione di un Libro d’oro dei veri titolati; dal 1780 elaborarono anche una sorta di Codice feudale. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll.. (a cura di Cristina Setti) |
Q |
Quarantia Criminal:Quest’istituzione, nata come “costola”del Maggior Consiglio nei primi anni del XIII secolo al fine di corroborare e al contempo controbilanciare l’azione di governo della Signoria, si connota innanzitutto per le deleghe che riceve in materia giudiziaria, per cui diviene ben presto il principale tribunale ordinario veneziano, cui obbligatoriamente veicolare la fase deliberativa dei giudizi di seconda istanza in campo civile e penale. Tale funzione, in precedenza assolta dagli Avogadori di Comun, rimase comunque conseguente alla loro attività intromissoria, la quale risultava determinante nel circoscrivere quegli ambiti normativi entro cui era possibile difendere o ricusare la legittimità di una procedura: in altri termini la Quarantia costituiva di fatto la sede entro cui avevano luogo i processi d’appello, che vedevano protagonisti in primis gli Avogadori, supremi difensori delle prerogative costituzionali e giuridiche del centro dominante di fronte a chiunque, a loro dire,non le rispettasse pienamente; la sua azione deliberativa pertanto finiva per coordinarsi strettamente con l’impianto accusatorio tracciato da costoro (secondo un modalità relazionale di tipo inquisitoriale che ricorda molto quella oggi in atto tra magistrato giudicante e pubblico ministero), valutando se le istanze di incostituzionalità o i vizi procedurali da essi presupposti avessero fondamento, e quindi se fosse il caso di “laudare” o “cassare” la sentenza intromessa presso tale collegio giudicante. Il tutto nella più assoluta trasparenza, data la pubblicità delle cause ordinarie, trasparenza che si riverberava anche nell’atmosfera di solennità che pervadeva l’enunciazione dei rilievi fatti agli atti processuali contestati.Tuttavia, se da un lato tutto ciò poteva costituire un efficace fattore di propaganda in meritoall’equità delle istituzioni giudiziarie veneziane, dall’altro le lungaggini burocratiche che nederivavano finirono ben presto per ostacolare e rallentare il funzionamento dell’enorme macchina amministrativa costituita dalla Quarantia, anche perché ai suoi membri, che almeno all’inizio erano persone qualificate ed esperte in materie economiche e giuridiche, venivano affidati incarichi legislativi ed esecutivi di non poco conto, come la politica fiscale, gli affari esteri e la designazione dei componenti di Senato, Maggior Consiglio e un’infinità di altre nomine pubbliche di minore importanza, oltre all’accoglimento delle suppliche dei sudditi.Nondimeno, tutte queste incombenze conferivano un prestigio particolare alla Quarantia, tanto che il loro progressivo inglobamento da parte degli altri consessi della Repubblica comporterà un notevole ridimensionamento di quest’antica istituzione, che pure sul piano giuridico subirà soprattutto in età moderna la concorrenza insistente del Consiglio dei Dieci, il quale appunto sembra avere un’evoluzione inversamente proporzionale a quella declinante della Quarantia (v.Frasson, 1980). In particolare, con l’estensione dei domini di Venezia nella Terraferma le cause placitate in Quarantia saranno talmente numerose da rendere necessario il raddoppiamento della stessa, mediante l’istituzione della Quarantia Civile (1441), proprio per dibattere le cause civili intromesse dagli Auditori, ed ancora dagli stessi Avogadori; quest’ultima verrà ribattezzata “Civil Vecchia” allorchè gli sarà affiancata, con competenze analoghe, una terza Quarantia, detta “Civil Nuova” o “Nuovissima”(1492). Ciascuna delle tre elegge i propri “capi” (aventi poteri molto più ampi rispetto agli altri membri) e i propri contradditori.(a cura di Cristina Setti) |
Querela:A differenza della denuncia, che era prodotta dall’autorità locale –nella Riviera il console nominato dall’assemblea dei capifamiglia della comunità di villaggio- la querela era un atto presentato in tribunale direttamente dalla parte lesa. Citando il “pratico” Lorenzo Priori, essa “viene prodotta in scrittura della parte offesa overo scritta verbalmente dal nodaro, la quale deve havere questi requisisti: il giorno et l’anno che viene prodotta, il nome dell’accusatore et dell’accusato, la spetie del delitto, il luogo e tempo nel qual fosse commesso, esprimendo le coherenze del delitto et luogo quando non fosse notorio…”.La querela era naturalmente fondamentale per l’avvio di un processo penale nei casi in cui “il giudice non possa, se non ad istanza della parte, secondo statuti o consuetudine, procedere”. Il riferimento è ai cosiddetti delitti privati, come ad esempio il furto semplice (“cioè quello che non sia congionto con altro delitto più grave”) o l’ingiuria verbale.Bibliografia: G. C HIODI, C. POVOLO (a cura di), L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI- XVIII), vol. I, Lorenzo Priori e la sua pratica criminale (trascrizione di L. MENEGON ), Sommacampagna, Cierre, 2004, pp. 3-4.(a cura di Michelangelo Marcarelli) |
R |
Raspa: Registro in cui venivano annotate le sentenze. |
Retenzione: Arresto. |
Rettori: Erano i patrizi veneziani eletti dal Maggior Consiglio veneziano come rappresentanti per reggere le città suddite. Potevano avere diverse denominazioni, ma per lo più erano chiamati podestà (che si occupava dell’ammnistrazione e della giustizia della città) e capitano (competente per le questioni militari). Duravano in carica circa sedici mesi e venivano accompagni per tutto il corso del loro incarico da una serie di collaboratori. Nelle città più importanti il loro lavoro era sorretto dai giudici assessori, variamente denominati a seconda delle magistrature che avrebbero occupato. Un cancelliere pretorio (del podestà) e un cancelliere prefettizio (del capitano) sbrigavano le pratiche di cancelleria che facevano capo ai rettori. Il cavaliere (pure al seguito del podestà) era invece colui che si sarebbe occupato di sovrintendere alle forze di polizia locali (sbirri). |
Ritenere: Arrestare. |
Rito inquisitorio del Consiglio dei dieci:Con l’istituzione del Consiglio dei Dieci ad inizio del Trecento, il Comune Veneciarum si dotò di una procudera inquisitoria che rispondeva ad esigenze diffuse e condivise pure da altri contesti territoriali: nelle città della Terraferma veneta e nel resto d’Italia una procedura dai tratti inquisitori veicolava, infatti, una forma di giustizia punitiva, espressione della fisionomia pubblica dell’organo giudiziario e del crescente ruolo cittadino nell’amministrazione della giustizia. Tuttavia le ritualità di tale procedura a Venezia assunsero sin da subito una fisionomia del tutto peculiare, espressione di un diritto – quello veneto – dal timbro squisitamente consuetudinario e pragmatico, ostile a qualunque forma di teorizzazione o di mediazione giurisprudenziale.Il procedimento penale dei Dieci si apriva su querela, denuncia o ex officio, qualora qualcuno del Consiglio avesse avuto informazione di un caso criminale. Le querele e le denunce erano dirette ai Capi, che provvedevano subito a verificare che il caso fosse realmente di competenza del Consiglio. Seguiva una prima verifica sul caso, presumibilmente eseguita da due inquisitori, cioè due membri del Consiglio estratti a sorte di mese in mese ed istituiti nel 1314. A loro competeva l’inquisizione generale, cioè lo svolgimento di quelle indagini preliminari per meglio comprendere il caso: loro compito era dunque scoprire, per mezzo di querele, denunce segrete, pubblica voce o attraverso proprie ricerche, se qualcuno avesse trasgredito alle disposizioni del Consiglio; accertare l’infrazione e il suo autore; e infine, raccolte le informazioni necessarie, informare l’intero consesso.Presumibilmente secondo la prassi di fine Cinquecento, essi informavano i Capi o l’avogadore di comun dei risultati delle loro ricerche e questi a loro volta riferivano il caso all’intero consesso. A quel punto spettava al Consiglio decidere se accettarne l’assunzione e quindi ordinare l’avvio di un procedimento penale. In particolare i Capi e/o l’avogadore proponevano l’arresto dell’imputato e l’istruzione del processo. Se gli altri componenti del Consiglio erano d’accordo, si prendeva la parte e si passava alla seguente inquisizione speciale.Questa fase era gestita dal collegio criminale ordinario o straordinario – costituito di 4 membri, di cui uno scelto tra i Capi, uno tra i consiglieri ducali, uno tra gli inquisitori e infire il quarto tra gli avogadori di comun. In carica per un mese, il collegio ordinario o straordinario provvedeva dunque ad interrogare l’imputato e, qualora lo ritenesse necessario, a sottoporlo a tortura. Aveva inoltre la facoltà di ordinare l’arresto di eventuali complici, interrogarli e di torturarli; e nel contempo di esaminare vittime e testimoni. Se non si riusciva ad arrestare l’imputato o i suoi complici, si emetteva il cosiddetto proclama o ordine di citazione.Al termine dell’interrogatorio degli imputati si avviava la fase difensiva, che sembrava rappresentare il momento processuale in cui si rivelavano le maggiori peculiarità del rito del Consiglio dei dieci. Essa, infatti, non si apriva con la consegna di una copia degli atti raccolti sino a quel momento o di un sommario di essi, come prevedeva la prassi processuale vigente nei maggiori tribunali della Terraferma veneta. L’imputato doveva difendersi da solo, senza cioè l’apporto giuridico di un avvocato; non poteva ricevere copia scritta delle accuse che gli erano state addossate, ma doveva ricordarle dal suo precedente interrogatorio; infine, doveva esporre a voce, davanti al collegio del caso, le sue ragioni.Raccolte le difese, con conseguente esame dei testi citati dall’imputato, il collegio aveva terminato il suo ruolo. A quel punto il processo sarebbe stato letto all’intero Consiglio dei dieci, a cui spettava il compito di decidere la sentenza.A partire dagli anni Ottanta del Cinquecento, a seguito dell’emergere del fenomeno del banditismo nei domini della Repubblica di Venezia, il Consiglio dei dieci inaugurò un’intensa attività di delega ai rettori delle maggiori città suddite, concedendo loro l’uso del rito inquisitorio proprio del Consiglio. Le caratteristiche peculiari di tali procedura – a Venezia come in Terraferma – erano la segretezza da cui erano coperte le deposizioni testimoniali, il divieto di dare copia degli atti processuali agli imputati e di avvalersi dell’apporto di un avvocato difensore. Inoltre gli atti processuali dovevano essere trascritti e maneggiati dal solo cancelliere del podestà (non dai notai cittadini).Delegato sempre più di frequente alle Corti pretorie dei maggiori tribunali del Dominio, il rito dei Dieci finì per insinuare una concezione della giustizia che trovava diretta espressione nel sistema giuridico veneziano e per imporre la superiore legittimità politica del centro dominante.BibliografiaG. Cozzi, «Ordo est ordinem non servare»: considerazioni sulla procedura penale di un detenuto dal Consiglio dei X, in “Studi storici”, 29, 1988, pp. 309-320;G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino, 1982;R. Fulin, Di una antica istituzione mal nota (Inquisitori dei X e Inquisitori di Stato), in «Atti del reale istituto veneto di scienze, lettere ed arti», serie V, vol. I, 1875;R. Fulin, Gl’inquisitori dei dieci, in «Archivio veneto», I, 1871;C. Povolo, L’intrigo dell’Onore . Poteri e istituzioni nella Repubblica di Venezia tra Cinque e Seicento , Verona, 1997 ;(a cura di Claudia Andreato) |
S |
SCROFFA, VINCENZO:Appartenente “a uno dei più antichi lignaggi aristocratici vicentini, che ancora [nel tardo Cinquecento] rivestivano un ruolo importante nella conduzione della vita politica e amministrativa della città” [Povolo 1992, p. 221] Vincenzo Scroffa fin da giovane si distingue per la sua esuberanza. Nato a Vicenza nel 1539, prima dei trent’anni (nel 1568) è costretto ad abbandonare la città perchè coinvolto in una rissa sfociata nel sangue sorta tra alcuni giovani rampolli della nobiltà berica . Da quel momento di lui si perdono per qualche anno le tracce, anche se è quasi certo che, colpito dal bando, si rechi immediatamente a Venezia, dove lo si ritrova all’inizio degli anni ’70 già in affari con il ricchissimo mercante ebreo portoghese convertitosi al cristianesimo Gaspare Ribeira, di cui sposa la figlia, ed unica erede, di nome Violante. Proprio per gli stretti rapporti parentali intessuti con la famiglia Ribeira, lo Scroffa viene in qualche modo coinvolto nella causa per giudaismo intentata dall’Inquisizione contro il suocero, riuscendo, tuttavia, a cavarsela, sciogliendo poco per volta (dopo la morte di Gaspare sopravvenuta nel maggio del 1581) i legami intrattenuti con la comunità dei marrani di Venezia .Nell’imparentarsi con Gaspare Ribeira, Vincenzo si trova ad operare fin da subito su di uno scenario internazionale di incredibili dimensioni, in cui Venezia è solo una delle sedi dei suoi interessi mercantili, che coinvolgono l’Italia centro-meridionale, le isole greche, la Francia, la Spagna, il Portogallo, le Fiandre, l’Inghilterra ed anche l’India e l’estremo oriente. Significativi a tal proposito sono i diversi e reiterati atti di procura con cui prima il suocero, e, dopo la morte di quest’ultimo, la moglie lo investono del compito di seguire in prima persona gli affari. Tra le molte procure di particolare rilievo è quella redatta a Vicenza “in domo magnifici domini Vincentii a Scropha posita in contracta Santi Faustini” dal notaio Paolo Chiappini per conto di Violante Ribeira “portugallensis filia quondam magnifici domini Gasparis unica heres dicti magnifici eius patris” il 19 maggio 1581, appena una settimana dopo il decesso del vecchio Gaspare. In essa viene minuziosamente evidenziato come il “magnificus dominus Vincentius Scroffa nobilis vincentinus”, tra le svariate mansioni di cui è espressamente investito, dovrà: esigere crediti “a quibuscumque personis […] tam in civitate Venetiarum quam extra in quibusvis civitatibus, terris et mundi partibus, tam a terra quam a mari”; comprare e vendere merci “tam ad tempus quam ad contantos”o a baratto; imbarcare mercanzie “super quibusvis vasselis” ed inviarle “ad quaslibet mundi partes […] tam cum securitatibus quam sine”; scaricare “alias merces et mercantias ex quibusvis partibus mundi provenientes ex quibusvis vasselis” e le medesime sdoganare; assicurare uomini e merci “supra quibuscumque navibus et vasselis […] pro quibusvis mundi partibus”; contrarre società “cum quibuscumque personis […] cum illis modis et condictionibus prout predicto domino procuratori videbitur”; mettere e levare “quaslibet summas denariorum […] ex Bancho Pisani et Theupulo seu ex quovis alio bancho”; dare e prendere denaro a cambio “pro quibuscumque feriis et nundinibus cuiuslibet partis mundi”; far redigere contratti di livello affrancabile; vendere “quaslibet naves et alios vasselos cuiusvis generis et qualitatis seu quoslibet caractos navium seu vasselorum dicte domine constituenti quocumque iuri et modo spectantes et qui in futurum quomodolibet spectare”. Si tratta di una serie di mansioni del tutto simili a quelle normalmente svolte dai più grandi mercanti-banchieri toscani, genovesi, veneziani o milanesi del periodo.E che Vincenzo si occupi dell’attività mercantile, prima per conto di Gaspare Ribeira e dopo la morte di quest’ultimo per conto della moglie, come già detto unica fruitrice dell’eredità ma considerata incapace a gestire l’impressionante giro d’affari per – come recitano le fonti – “imbecilitatem feminei sexus”, lo si evince anche dai diversi contratti per esazione di crediti, pagamenti di debiti, compravendita di merci, di navi o porzioni di navi in cui compare in prima persona o tramite l’operato di un procuratore da lui appositamente nominato. Solo per fare qualche esempio. Nel marzo del 1580 “il magnifico Vicenzo Scrova nobile di Vicenza figliolo del magnifico Gio Pietro facendo come procuratore e generale amministratore delli negocii et affari del magnifico Gasparo Ribiera suo socero […]” vende al mercante portoghese Bernardo Rodrigues, per un prezzo di oltre 1011 ducati correnti:“la giusta et intiera terza parte del corpo della nave chiamata Giovannassa di portata de cinquecento botti in circa, la quale nave si ritrova nella Isola di Sicilia per il viaggio di Cartagena in Spagna et è patroneggiata per ser Francesco Parente insieme con la giustia et intiera terza parte de tutti li corriedi, apparati , sartie, artegliarie, spazzo, noli, soventine, paghe de marinari et altro in esse nave esistente e nello istesso grado, stato et essere che la detta nave si ritrovava quando si partì di questa città di modo che ogni pro, utile e guadagno, risigo, danno e perdita seguita fin hora e che seguirà nello avenire sia et se intenda del detto magnifico Rodriguez non altrimente che se lo havesse comperato nell’istesso ponto che la detta nave partì di questa città di Venetia”.Nell’ottobre del medesimo anno, viceversa, lo Scroffa si fa sostituire dal mercante fiorentino, residente a Roma, Bernardino Olgiati per riscuotere quanto dovuto dal cremonese Ippolito Affaitati, dal milanese Cristoforo Riva e dal fiorentino Giacomo Bardi soci di una compagnia avente sede a Madrid, il cui debito assomma a ben 16600 scudi d’oro. Un mese più tardi, infine, è sempre Vincenzo a nominare suoi procuratori i fiorentini Filippo Sassetti e Felice Saladini “socii comorantes Lisbone partibus Portugali” perchè procedano alla riscossione di quanto dovuto da diversi debitori (Alvaro de Medina, Nicolò Girardes, Pietro Martines e Consalvo Peres) “tam in civitate Lisbone quam in quibuscumque aliis civitatibus, terris et locis totius regni Portugali”. Ma gli atti di questo tipo sono numerosi a dimostrazione di un’attività assai intensa.Tra i diversi nomi di coloro a cui Vincenzo Scroffa si appoggia per svolgere al meglio i diversi affari mercantili ed in particolare per riscuotere i crediti vantati “in omnibus mundi partibus” c’è anche quello di un cugino, il nobile vicentino Antonio Maria Ragona. E’ proprio il Ragona, infatti, ad essere nominato da Vincenzo suo sostituto e procuratore il 3 marzo del 1582 “specialiter et expresse ad petendum, exigendum et recuperandum quaslibet summas et quantitates denariorum, rerum, mercium et bonorum […] tam in partibus Galie et Hyspaniarum ac Regni Portusgalli quam alibi” ed in specifico per riuscire ad ottenere il pagamento dell’ingente debito (pari a svariate migliaia di ducati correnti) accumulato tra il 1574 ed il 1576 da Francisco Giraldes un tempo “ambasciatore in Londra della maestà del re di Portogallo”. Di lì a qualche giorno Antonio Maria partirà effettivamente, lasciando Vicenza con meta iniziale la Francia. E del suo peregrinare per circa un anno (tra la primavera del 1582 e la primavera dell’anno seguente) tra Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo si è a conoscenza in modo minuzioso grazie all’interessantissimo e vivace diario di viaggio da lui stesso redatto per l’occasione. In esso le notizie di carattere geografico, di costume, di descrizione dell’architettura civile, militare e religiosa delle varie città attraversate nel corso del cammino sono intervallate da riflessioni di carattere prettamente economico, che tradiscono la vera motivazione del viaggio (cioè quella di curare gli interessi commerciali e finanziari di Vincenzo Scroffa – come ben si evince dall‘incipit dello scritto: “offerendosi a me Antonio Maria Ragona d’andare per faccende importanti del signor Vincenzo Scrova mio cugino in diverse parti d’Europa […]”) e che riguardano, ad esempio, Lione; Rouen; Parigi; Cadice; Cordoba; Siviglia; Toledo; Londra e la sua borsa; l’incontro nella capitale inglese con Gaspare Gatto- uno dei tanti mercanti di seta vicentini sparsi per mezza Europa in quel periodo -; con continui riferimenti alla nave “Scroffa” di proprietà del cugino Vincenzo su cui deve imbarcarsi a Cadice con destinazione Lisbona.La nave “Scroffa”, appunto. Sino ad ora ci si è soffermati sull’attività che Vincenzo conduce per conto o come erede dei Ribeira. Ma il nobile vicentino ha anche degli interessi mercantili personali che persegue servendosi di una nave che porta significativamente il nome del suo lignaggio: “Scroffa”. Di essa si ha notizia fin dal 1580, quando è ricordato un suo viaggio sino a Zante. Il Ragona nel suo diario ci ricorda che la “Scroffa” si muove normalmente lungo la tratta Venezia-Sicilia-Cadice-Lisbona e ne registra l’arrivo nella città spagnola nel mese di febbraio del 1583, fornendo qualche notizia sulle merci per l’occasione in essa caricate:“[…] Alla fine venne la nave di febbraio et subito [il] signor Pietro Castiglio ministro del re in Cadiz et console della natione venetiana […] la caricò di forse 500 botte di vino et di molti barili di tonnina […]”Ma i documenti reperiti a proposito di essa rimangono piuttosto rari fino al 22 febbraio del 1584, quando, tornando carica di merci da Lisbona con destinazione Venezia, la “Scroffa” incorre in un disastroso naufragio nelle acque al largo di Otranto. Ecco cosa fa registrare, davanti al notaio veneziano Luca Gabrieli nel mese di giugno del medesimo anno, lo stesso nobile vicentino a conferma di quanto accaduto:“[…] Personalmente constituito davanti mi nodaro publico et testimonii infrascritti il magnifico signor Vincentio Scrova nobile vincentino già parcenevole della nave Scrova qual a tutte et ciaschune persone publiche et private che il presente publico instrumento vederanno, udiranno et legeranno fa piena et indubitata fede, affermando et attestando con suo giuramento qualmente la soprascritta sua nave Scrova della qual era parcenevole allora patroneggiata per Nicolò da Curzola, qual nave nel ritorno di Lisbona in questa città si ruppe et nauffragò nelle acque di Otranto alli 22 del mese di febraro prossimo passato che de giorno de mercore alli otto de quadrigesima de modo che tutte le robbe et mercantie sopra quelle cariche per causa di tal nauffragio sono perse et che non s’è salvato cosa niuna di quelle in minima quantità per quanto lui sa et ciò detto signor Vincenzo afferma saper per vera scientia si per l’interesse che havea come parcenevole di detta nave come per haverlo inteso dal patrone, scrivan et marinari che si salvorno dal nauffragio d’essa nave […].”Altre dichiarazioni del medesimo tenore vengono rilasciate tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1584, ad esempio, dallo “scrivan della nave Scroffa” Nicolò di Giulio Iachissa; da Marino di Matteo da Venezia “altre volte barbier sopra la nave Scroffa”; dal mercante e assicuratore veneziano Gian Vincenzo di Alvise Stella che dichiara anche che “per causa del qual nauffragio li assicuratori che assicurorno diversi sopra detta nave et mercantie sottoscrissero il risigho sotto la polizza di sigurtà a fine di pagar quelli che furno assicurati a tempo suo debito […]”;dal mercante portoghese Bernardo Rodrigues che sulla Scroffa aveva caricato “doi cassette d’ambri quali si persero, come parimente si persero tutte l’altre robbe et mercantie che sopra quella se ritrovavano […]”.Il naufragio determina un susseguirsi di atti rogati presso i notai veneziani o da parte dei mercanti che a causa dell’incidente hanno perso le loro preziose mercanzie o da parte degli assicuratori che in tal modo intendono cautelarsi nei confronti di possibili truffatori. Così, grazie ad alcune polizze di carico appositamente fatte registrare e tuttora conservate presso i protocolli notarili, si viene a conoscenza di cosa la “Scroffa” avesse caricato a Lisbona tra il 28 ed il 30 settembre del 1583 e trasportasse durante il suo ultimo sfortunato viaggio. Zucchero del Brasile e muschio aveva imbarcato “il signor Odoarte Fortade” per conto di “Philippo de Nis portugese mercante de Lisbona”; ancora zucchero il mercante “Fernao Roiz” per conto del “magnifico messer Michiel Vasport portugese mercante in questa città [Venezia]”; zucchero, piombo e muschio, viceversa, “Alvise Verato di raggione di magnifici Gio Francesco e Girolamo Veggia de Venetia”; ambra “il signor Ludovico Lopes […] per consignar in Venetia alli magnifici Rui Lopes, Diego Rudrighes e frattelli o chi per loro”; muschio “il magnifico Thomaso Karg allamano habbitante in questa città di Venetia […] come compimentario legitimo della raggione che canta in questa città Marco e Mattheo Belzeri gantilhuomeni et mercanti d’Augusta”; ed infine zucchero il mercante veneziano Luc’Antonio Giunti.Non si sa quanto il naufragio della “Scroffa” abbia inciso sulle disponibilità economiche di Vincenzo, ma è probabile che non lo abbia messo in irreparabili difficoltà se si presta fede al testamento da lui dettato al notaio vicentino Medoro Rigotto nel marzo del 1612 dove straordinaria è la quantità di denaro destinato ai legati “perchè”, come dichiara lo Scroffa medesimo, “io so molto bene che la mia facultà et l’entrata li può fare”. Né si sa se il nobile vicentino abbia dovuto a causa dell’incidente cautelarsi a livello giudiziario. E’ certo che a una prima procura del marzo del 1584 con cui il mercante messinese Silla Vismara è investito del compito di raccogliere quel poco che si è salvato dal naufragio della nave, ne segue una seconda redatta nel medesimo mese di due anni dopo in cui il “magnificus dominus Vincentius Scroffa nobilis Vincentie” nomina suo procuratore il vicentino Bernardino di Nicolò Castellini al fine di recarsi a Messina, Napoli e Taranto per cercare di rientrare in possesso dell’artiglieria – recuperata dopo il naufragio – di cui disponeva la “Scroffa”.Ma nel corso degli anni ’80 lo Scroffa non si dedica esclusivamente alla mercatura. Diversi sono, infatti, gli atti che attestano come Vincenzo metta a frutto gli ingenti capitali di cui dispone grazie all’eredità di Gaspare Ribeira concedendo cospicui prestiti di denaro tramite la tipologia contrattuale (diffusissima in ambito veneto, come ovunque nell’Italia centro-settentrionale) della falsa vendita di un immobile o di un terreno con immediata riconcessione in fitto o in livello; a goderne sono tutti esponenti della nobiltà vicentina. Solo per fare due esempi il 4 agosto del 1581 è Giacomo di Pietro Ragona a ricevere 2000 ducati, fattigli accreditare dallo Scroffa presso il banco Pisani-Tiepolo di Venezia, per una possessione di 80 campi sita a Montegaldella, la quale gli viene immediatamente riconcessa a livello dietro il pagamento annuale di 120 ducati (il classico interesse del 6%); mentre una decina di giorni dopo è Scipione figlio del defunto Nicolò Loschi “eques sancti Michaelis ordinis cristianissimi regis Francorum” a ricevere la medesima somma (anche in questo caso accreditata presso il Banco Pisani-Tiepolo) per una possessione di 70 campi sita a Vicenza nella coltura di Santa Croce, che gli viene immediatamente riconcessa a livello dietro il pagamento sempre di 120 ducati.Con gli anni ’90 lo Scroffa pare trasferirsi definitivamente a Vicenza, mentre i documenti di natura mercantile che lo riguardano sono sempre meno numerosi (anche se attestano degli interessi commerciali condivisi con un altro nobile di primo piano dell’aristocrazia vicentina, il cavaliere Giuliano di Guido Piovene).Divenuto, dopo la morte della moglie, unico erede dell’enorme patrimonio dei Ribeira, Vincenzo ritorna nella città natia immensamente più ricco di quanto non fosse stato in precedenza, riuscendo in tal modo a puntellare ulteriormente il proprio prestigio sociale. Farà sposare il figlio Giulio Cesare con Paola Martinengo, appartenente ad uno dei casati nobiliari più potenti della Terraferma. Un’alleanza che verrà bruscamente interrotta per la precoce morte di Giulio Cesare, tanto che (dopo un susseguirsi di vicende che renderanno sempre più tesi e difficili i rapporti tra lo Scroffa e la famiglia bresciana) nell’agosto del 1613 “andando a casa a cavalo, fu arsaltà fora dalla porta da Santa Lucia et li fu sbarà due archibusate”da alcuni sicari inviati dal conte Giovanni Martinengo “et restò ferito che quasi pasò subito di questa vita presente” [citazione riportata in Povolo 1992, p. 227 nota 26] .Bibliografia essenziale ragionataPer la vicenda di Polissena Scroffa, v. C. Povolo, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il consiglio dei Dieci una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Settecento, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 221-233.Per il processo intentato dal Sant’Uffizio di Venezia contro Gaspare Ribeira, suocero di Vincenzo Scroffa, v. B. Pullan, Gli Ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985, pp. 357-377 e passim; idem, The Inquisition and the Jews of Venice: the Case of Gaspare Ribeiro, 1580-1581, “Bullettin of the John Rylands Library of Manchester”, LXII (1979), pp. 207-231; Processi del S. Uffizio di Venezia contro Ebrei e Giudaizzanti (1579-1586), vol. V, a cura di P. C. Ioly Zorattini, Firenze 1987, ad indicem; F. Ruspio, Una comunità di Marrani a Venezia, “Zakhor”, V (2001-2002), pp. 53-85, specialmente alle pp. 59-66Per i riferimenti archivistici di gran parte dei documenti citati nel testo e di molti altri che confermano gli interessi mercantili di Vincenzo Scroffa, v. E. Demo, Gli affari mercantili di dimensione internazionale di due nobili della Terraferma veneta del secondo Cinquecento: Alessandro Guagnini e Vincenzo Scroffa, in “Studi Storici Luigi Simeoni”, LVI (2006), pp. 119-158.Per gli interessi mercantili del ceto dirigente vicentino cinquecentesco, in particolare dei committenti palliadiani, v. E. Demo, Le attività economiche dei committenti vicentini di Palladio. Nuove suggestioni sulla base dei recenti ritrovamenti archivistici, in Palladio 1508-2008, il simposio del cinquecentenario, Venezia 2008, pp. 25-28.(a cura di Edoardo Demo) |
Senato: O Consiglio dei Pregadi, che inglobava, oltre ai sessanta senatori, anche una Zonta (Aggiunta) e altre magistrature. Dopo la riforma del 1582 divenne vero e proprio organo decisionale dello stato veneziano. Sarà suo compito affrontare, sul piano generale, compiti relativi all’ordine pubblico e al banditismo, Per questo compito agiva comunque in stretta collaborazione con il Consiglio dei dieci. |
Servatis servandis: Vedi: Procedura ordinaria e servatis servandis. |
Sistemi di filiazione: Vedi: Filiazione |
Sopraconsoli dei mercanti:Questa magistratura, sorta con tutta probabilità nel secolo XIII, aveva dei peculiari compiti di mediazione, che riflettono molto bene l’atttitudine al compromesso insita nella mentalità veneziana: essa infatti, nella persona dei suoi tre o quattro membri, fu istituita innanzitutto per favorire gli accordi tra creditori e debitori, ammesso ovviamente che gli atti di fallimento o insolvenza di questi ultimi non fossero dolosi, ovvero strumentali, o recidivi. Un decreto emanato dal Maggior Consiglio nel 1395 fissa poi la loro particolare facoltà di concedere affide e salvacondotti a coloro che per condizioni avverse erano costretti a fuggire, previo esame di tutte le carte concernenti la loro situazione debitoria: i Sopraconsoli infatti dovevano accertarsi che la fuga non fosse finalizzata a frodare il creditore o i familiari, tramite l’occultazione dei beni o la loro illegale alienazione. Questi pubblici funzionari si occupavano inoltre del riconoscimento delle doti o di altri crediti privilegiati; sovrintendevano la materia dei pegni (alla cui scadenza ne curavano la vendita all’incanto), con un occhio particolare ai crediti concessi agli ebrei e ai mercanti. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll.. (a cura di Cristina Setti) |
Sopragastaldo:Questa carica pubblica, creata tra 1471 e 1473, deriva direttamente dalla Cancelleria Inferiore (l’ufficio amministrativo più vicino al Doge), della quale non a caso conservava tutte le scritture; compito importantissimo, tanto da richiedere che il Sopragastaldo provenisse dal ceto aristocratico. A costui peraltro era stata attribuita una funzione ben precisa: quella dell’esecuzione materiale di tutte le sentenze civili della Repubblica, da qualsiasi magistrato fossero emanate, compito che in precedenza, almeno formalmente, spettava al doge. Cionondimeno, le facoltà del Sopragastaldo e dei suoi due collaboratori (i Gastaldi) si limitarono soprattutto al sequestro dei beni dei debitori insolventi, che essi usavano mettere all’asta seguendo un ordine, per così dire, graduale: prima i beni mobili, poi quelli stabili fuori Venezia e quindi quelli stabili in Venezia; altrimenti, nel caso non trovassero nulla da pignorare, avevano il diritto di incarcerare il debitore, che comunque poteva ricorrere all’Ufficio del Superior. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233. (a cura di Cristina Setti) |
Sostituzione fedecommissaria: Vedi. Fedecommesso |
Spazzo:Sentenza emessa dalla Quarantia ove si dichiarava, dopo il processo di appello, il laudo o il taglio della sentenza di primo grado al giudice che l’aveva emanata.(a cura di Cristina Setti) |
Sponsali per verba de futuro: Nel diritto canonico corrispondevano al fidanzamente tramite cui i due futuri nubendi si scambiavano reciproca promessa di matrimonio. Erano considerati vincolanti, anche se dopo il Concilio di Trento perderanno di efficacia (si vedano i consulti riportati e commentati nel sito). |
Sponsali per verba de praesenti: Nel diritto canonico (secondo la teoria di Pietro Lombardo, poi accettata dalla Chiesa) erano cosituiti dallo scambio di consensi (con il rituale scambio di anelli) tra i due nubendi e tramite il quale veniva a costituirsi valido e legittimo matrimonio. Prima del Concilio di Trento per la loro validità si richiedeva che lo scambio fosse effettuato in presenza di testimoni. In assenza di tale requisito il matrimonio era considerato legittimo ma però un matrimonio clandestino. Dopo il Concilio di Trento gli sponsali per verba de praesenti dovevano avvenire alla presenza del parroco e di almeno due testimoni. Il requisito delle pubblicazioni (per tre domeniche di seguito alla porta della chiesa) non era considerato elemento che inficiava la legittimità dello scambio del consenso, ma in tal caso il matrimonio era considerato clandestino. |
Successione “ab intestato”:Con questa denominazione s’intende quel tipo di eredità che, in mancanza di un testamento valido sottoscritto dal defunto, viene assegnata ai suoi successori secondo le regole previste in quel momento dalla legge. A Venezia la cura dei procedimenti relativi ad essa spettava ai Giudici del Proprio. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937.FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll.. (a cura di Cristina Setti) |
Supplica: Scrittura tramite cui i sudditi si rivolgevano alla Signoria o ad altri organi di governo per ottenere giustizia o una particolare grazia. |
T |
Terzarolo:Pistola lunga all’incirca un terzo di un archibugio.(a cura di L. Pezzolo) |
Testamento nuncupativo:Questo tipo di testamento, classificato dal Ferro come “solenne” e molto diffuso nel mondo contadino, si chiamava “nuncupativo” in quanto il suo firmatario lo enunciava verbalmente, in presenza di due testimoni “chiamati e pregati”, dinanzi al notaio che doveva farne il rogito, e che pertanto era obbligato a stenderlo per iscritto parola per parola e nell’idioma del testatore: l’uso del latino avrebbe infatti aperto la possibilità di interpretazioni personali e fuorvianti. Tuttavia il volgare era preferito anche perché i testimoni potessero legittimarlo attivamente, leggendo e controfirmando ambedue le sue copie, delle quali una rimaneva al notaio stesso mentre l’altra era destinata agli archivi della Cancelleria Inferiore. E’ inoltre opportuno ricordare che, nel caso delle donne, i testamenti nuncupativi pronunciati in presenza del marito erano ritenuti nulli. Bibliografia:FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233 (a cura di Cristina Setti) |
Testamento per breviario:Quello “per breviario” era un testamento di tipo insolenne, in quanto pronunciato in casi eccezionali, come ad esempio l’essere feriti o colpiti da un male improvviso che non lasciasse al morente la possibilità di formalizzare le sue disposizioni secondo le normali procedure di legge. Sicché il testatore, qualora si trovasse impedito da situazioni di questo o altro genere, poteva chiamare a sè due testimoni fidati che prendessero atto delle sue ultime volontà e le comunicassero dinanzi alla Quarantia Civil Nova, supremo tribunale della Serenissima deputato alle questioni civili. Il testamento per breviario infatti poteva acquisire ufficialità soltanto dopo la ratifica di questo collegio, che gli conferiva l’attributo di solennità. Bibliografia:FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233 (a cura di Cristina Setti) |
Testamento solenne o “in scriptis”:Questa tipologia d’atto consisteva in genere nel sottoporre al vaglio d’un notaio un documento, detto “cedola testamentaria”, scritto per mano propria o di qualcun altro, nel quale si indicavano le proprie volontà circa la gestione del patrimonio da lasciare agli eredi. Secondo questa modalità, la consegna della cedola doveva di norma avvenire dinanzi a due o tre testimoni (o anche di più, a seconda della consuetudine del luogo), i quali al momento del rogito dovevano controfirmarla; se però essa era stata scritta da un’altra persona in vece del testatore, prima di convalidarla il notaio era tenuto ad appartarsi con il testatore stesso, che gliel’aveva affidata in quel preciso istante, per rileggerla, in modo da verificare se quest’ultimo approvasse interamente ciò che vi era scritto o se, in caso contrario, volesse modificarne alcune parti. Nei casi in cui il testatore era donna, se questa consegnava la cedola in presenza del marito il testamento non era ritenuto valido. Espletata dunque la formalità del colloquio, al notaio non rimaneva altro da fare che richiamare i testimoni per procedere alla convalida e al sigillo dell’atto, che da essi doveva poi essere riconosciuto al momento della sua pubblica apertura: solo in quell’istante il testamento sarebbe entrato in vigore; motivo per cui esso era considerato “solenne” ed era diffuso soprattutto tra i ceti nobiliari. Bibliografia:FERRO Marco, Dizionario del diritto veneto, Venezia 1845, 2 voll..POVOLO Claudio, Polissena Scroffa, fra Paolo Sarpi e il Consiglio dei Dieci. Una vicenda successoria nella Venezia degli inizi del Seicento, in AA. VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, ed. Il Cardo, 1992, pp. 221-233. (a cura di Cristina Setti) |
U |
Ufficio del Superior o “Sopra atti del gastaldo”:Tale ufficio, sorto nel 1485, era sostanzialmente una corte d’appello, deputata nello specifico all’esame dei ricorsi contro gli atti (di sequestro) del Sopragastaldo e dei suoi sottoposti, atti che erano di norma preceduti da una sentenza. In precedenza questo tipo di appelli veniva inoltrato a un collegio di tre Procuratori di San Marco, scelti ciascuno per ogni procuratia. In alcuni fondi archivistici l’Ufficio del Superior è denominato quindi: “Al luogo dei procuratori sopra gli atti del Sopragastaldo“. Bibliografia:AA. VV., Guida generale degli archivi di stato italiani, Roma 1994, vol. IV (S-Z), pp. 857-1148.DA MOSTO Andrea, L’archivio di Stato di Venezia, Roma 1937. (a cura di Cristina Setti) |
V |
Voce: Vedi: Voce liberar bandito. |
Voce liberar bandito: La voce liberar bandito era un diritto che veniva acquisito da colui che catturava o uccideva un bandito. La qualità della voce dipendeva dal tipo di pena che aveva colpito il bandito. L’Avogaria di comun aveva competenza sul rilascio di voci inerenti tutti i banditi, ad eccezione di quelli del Consiglio dei dieci o dei rettori insigniti della delegazione dello stesso Consiglio. La prima fase della voce era costituita da un processo istruito dal podestà del luogo in cui era stato ucciso il bandito. La persona catturata o il corpo del bandito ucciso (più spesso la sola testa) veniva presentata all’ufficio del maleficio locale, il quale raccoglieva le deposizione dei testi che avevano assitito alla cattura o all’uccisione o che comunque erano in grado di riconoscerne l’identità. Il processetto veniva poi presentato al Consiglio dei dieci dagli interessati, con la richiesta dell’ottenimento della voce e copie delle sentenze di bando pronunciate contro il bandito ucciso. Questa prima fase si concludeva per lo più positivamente con la concessione da parte del Consiglio dei dieci delle voci richieste. A questo punto la voce liberar bandito diveniva una sorta di ‘titolo’ che poteva essere oggetto di compravendita in quello che possiamo definire il mercato delle voci. Ovviamente la voce poteva essere utilizzata dalle stesse persone che avevano richiesto ed ottenuta la voce se queste erano a loro volta colpite da sentenza di bando (come nel caso di alcuni componenti del gruppo che faceva capo ad Alessandro Remer). Più spesso la voce era ceduta al maggior offerente. In tal caso veniva per lo più stipulato un contratto notarile che attestava il passaggio dei diritti acquisiti. La seconda fase era costituita dalla richiesta, rivolta al Consiglio dei dieci, di liberare una determinata persona colpita da un bando (lo stesso interessato, oppure chi aveva acquistato la voce). E’ probabile che il contratto notarile divenisse per lo più operativo solo nel caso che la seconda fase si fosse conclusa positivamente. Accadeva infatti che il Consiglio dei dieci respingesse la richiesta, ritenendo la voce ‘inadeguata’ rispetto alla persona di cui si chiedeva la liberazione. Talvolta la richiesta di liberazione doveva essere più volte ripetuta (o comunque aggiustata) a causa dei numerosi pender, in quanto non si riusciva ad ottenere la maggioranza richiesta (ad esempio i due terzi delle cosiddette ballotte). Come ad esempio nel caso della liberazione di Leonardo Mocenigo. Un caso di aggiustamento è dato, ad esempio, dalle voci ottenute dalle due comunità di Tignale e Gargnano (da sei voci a due, ma più rilevanti). Le voci più consistenti erano quelle che potevano ottenere l’eventuale liberazione di persone colpite da sentenze di bando in cui si era esplicitato chiaramente che la liberazione non avrebbe potuto essere ottenuta se non dopo un determinato periodo di tempo, oppure se non con la presentazione dell’atto di pace, oppure, ancora più spesso, solo con una determinata strettezza di ballote, cioè con una determinata maggioranza, spesso più difficile da ottenere. |
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