Alcune osservazioni al titolo del corso: Donna, figlia, erede. Discorsi, pratiche e rappresentazioni della successione femminile in età moderna.
Innanzitutto il primo termine: donna. La scelta (nell’ambito tematico più ampio della successione ereditaria) è dettata dalle caratteristiche (e, pure, dalla frequenza) di conflitti successori in cui il soggetto principale è una donna. Conflitti che hanno dato luogo, soprattutto a partire dalla prima età moderna, ad una ricchissima documentazione depositata negli archivi pubblici e privati. Il termine donna rinvia dunque, in primo luogo, ad un approccio storiografico in cui il tema della biografia è predominante. Dagli archivi emergono vicende minute ed intricate al contempo; una serie di interrelazioni sociali dense e ricche di spunti interpretativi; nomi e cognomi: in definitiva informazioni che rinviano a donne che erano, per così dire, in attesa di emergere sullo scenario della storia, in virtù soprattutto di una diversa sensibilità che ne potesse cogliere la significatività storica. Nell’ambito delle cause successorie, quelle contrassegnate dalla presenza del soggetto donna presentano indubbiamente delle caratteristiche loro proprie. Innanzitutto si delineano per l’estrema durezza del contendere, che si svolge molto spesso senza alcun risparmio di colpi. Una caratteristica plausibilmente giustificabile dal fatto che la presenza della donna nel conflitto (in tutte le sue motivazioni) tendeva ad incrinare la solidità del lignaggio e la sua stessa tenuta, che pure era tendenzialmente soggetta alle inevitabili tensioni esistenti tra i suoi membri maschili. Il conflitto che nelle sue rappresentazioni dà largo spazio alla presenza femminile rivela inoltre suggestivamente le contraddizioni insite in una linea successoria che trae le sue basi culturali dalla dimensione patrilineare ed agnatizia. E questo aspetto ci introduce pure in uno scenario politico frammentato, se non controverso, in cui i diversi lignaggi (costruiti sulla parentela maschile) si fronteggiano aspramente, indebolendo non solo il comune sostrato idelogico, ma pure devono ricorrere ad un diverso linguaggio giuridico e culturale che si estrinseca, quantomeno sul piano formale, tramite il soggetto femminile e le sue rivendicazioni individuali. E questo perché, anche quando la causa è rappresentata, in una delle sue parti, da una donna, noi possiamo individuare, dietro a lei, la presenza di un altro lignaggio e di altre istanze più specificamente maschili. Quest’ultimo aspetto non diminuisce di certo il valore pregnante rappresentato da un conflitto che formalmente non si dispiega solo nell’ambito delle relazioni parentali maschili: il soggetto donna, comunque, rivela alcune specificità che non sono facilmente e meramente riconducibili alla logica parentale maschile. Ed è proprio partendo da questa considerazione che possiamo considerare la biografia femminile (quale ci giunge dal conflitto successorio) come un dato che veicola aspetti di indubbia importanza sul piano interpretativo e storiografico. I conflitti di tale natura non possono infatti prescindere da una questione più ampia di genere, che implica, sullo sfondo, una serie di problemi di grande rilevanza (in primis l’onore) che influiscono sulla rappresentazione (e sugli stessi percorsi) del conflitto. Le cause successorie al femminile si costituiscono, dunque, come un fervido terreno di riflessione per cogliere non tanto e non solo questioni di tipo giuridico-successorio, quanto piuttosto la struttura stessa del linguaggio culturale che le anima. Significativa, sotto questo profilo, la causa giudiziaria che contrappose Euriemma Saraceno alla sua famiglia. La documentazione che la riguarda è condotta in prima persona o fa diretto riferimento ad essa, anche se sappiamo che dietro alla contesa si situavano il marito e il suo lignaggio. Nonostante questo, il conflitto fa emergere in tutta la sua rilevanza la questione di genere nell’ambito personale e successorio. La messa in discussione della legittimità di Euriemma e del ruolo della madre, rinviano direttamente ai legami affettivi e giuridici della donna nell’ambito della famiglia aristocratica. In definitiva, possiamo dire che il termine Donna, utilizzato nel titolo del corso, ha preminentemente una sua significatività, che prescinde da quella che genericamente viene definita storia delle donne. Se da un lato l’elemento biografico mira indubbiamente a sottolineare la specificità della fisionomia storica del soggetto femminile (nei suoi diversi ruoli), dall’altro, però e soprattutto, gli aspetti culturali e giuridici collegati al genere femminile rinviano a temi e problemi di più ampia dimensione, nella quale la figura della donna si costituisce come fervido terreno di indagine ricca di spunti interpretativi.
Il termine figlia suggerisce immediatamente una relazione parentale, anche se chiaramente di genere. In questa direzione le questioni successorie, ma anche di ruoli, di tipo affettivo ed economico sono ovviamente rilevanti. Sul piano successorio la relazione padre (ma leggasi anche lignaggio)-figlia è di estremo interesse, in quanto esplicita non solo un particolare legame affettivo e famigliare, ma rinvia pure ad un istituto successorio di estremo interesse: la dote. La definizione di dote come istituto successorio si basa essenzialmente sul fatto che la donna esce dalla casa paterna (molto spesso) prima della morte del padre per entrare in una nuova famiglia (lignaggio). L’apporto dotale che le viene assegnato costituisce teoricamente la sua quota di eredità legittima, anche se sappiamo (vedi la vicenda di Caterina Corradazzo) che, soprattutto tra le famiglie aristocratiche, la dote finiva molto spesso per acquisire il sapore dell’esclusione. Tant’è che negli statuti cittadini si prevedeva appositamente il cosiddetto istituto della dote congrua. La dote (molto spesso versata ratealmente) manteneva il legame della figlia con la famiglia di origine e con il padre, il quale in tal modo esercitava in molti casi anche una sorta di autorità nei confronti del marito. La posizione della figlia dotata all’interno della nuova famiglia era decisamente più forte di quella che si veniva invece a costituire in assenza di dote e in cui la donna entrava in comunione di beni con il marito. E’ stato osservato che nelle società in cui è prevalente l’istituto dotale si privilegia il ruolo della donna come figlia e madre; laddove, invece, è diffusa la comunione dei beni, è il ruolo di moglie ad essere sottolineato, con tutte le implicazioni affettive ed economiche che questi tipi di relazione comportano. Il termine figlia sottolinea dunque il rapporto della donna con la famiglia di origine, non tanto e non solo nel suo stato di nubile, quanto piuttosto in quello di donna sposata. Lo stato di nubilato è comunque di estremo interesse. Nelle famiglie aristocratiche e borghesi esso comportava che l’educazione venisse per lo più condotta in un monastero (vedi il caso interessantissimo di Anna Ferramosca) da cui generalmente si usciva per il matrimonio già concordato dalle due famiglie. Ma lo stato di nubilato comportava pure che intorno alla figura di figlia si addensassero valori molto forti racchiusi nell’ideologia dell’onore. Era il concetto d’onore a definire, tramite la verginità e il pudore, le caratteristiche positive della giovane donna. L’idioma dell’onore, tipico di ogni società stabile, garantiva con gli scambi matrimoniali la purezza della genealogia patrilineare e assicurava stabilità al sistema economico. Non a caso era considerato assai pericoloso il rapimento violento condotto nei confronti di giovani donne, strappate dalla casa paterna, sconvolgendo calibrate e già predisposte alleanze matrimoniali. La giovane vergine costituiva dunque un pericolo per il lignaggio d’origine e solo il matrimonio assicurava che il pericolo fosse scongiurato. La gestione dell’onore femminile passava così al marito, il quale però doveva farsi carico del suo mantenimento scongiurando ogni rischio di adulterio. La cessione di una donna da parte del lignaggio di origine costituiva comunque una perdita in termini economici, anche se era lo strumento essenziale per allacciare alleanze vantaggiose. Proprio per agevolare questo processo molti testatori prevedevano nelle loro volontà legati assai severi nei confronti dei figli maschi, obbligandoli a dotare le sorelle secondo lo status della Casa. In un certo senso la dote si costituiva anche ambiguamente nell’ambito di una società dominata da una forte presenza del lignaggio e dall’ideologia dell’onore. Se da un lato la tentazione di considerarla nella sua accezione di esclusione era molto forte, dall’altro essa rappresentava pure l’espressione visibile dello status de lignaggio e della sua capacità di stringere alleanze vantaggiose. Un’ambiguità che, evidentemente, si rifletteva nella stessa figura femminile, soprattutto nel suo ruolo di figlia. Anche nel mondo contadino la dote svolgeva un ruolo importante. Per evitare la dissoluzione del patrimonio familiare le famiglie contadine tendevano a cedere le figlie essenzialmente in base a relazioni di vicinato: la figlia veniva ceduta ad una famiglia che doveva risiedere quanto più possibile vicina a quella di origine. In tal modo nella generazione seguente (o se vincoli di consanguinetà lo impedivano nelle due successive) la famiglia che aveva ricevuto la donna ne cedeva, a sua volta, una propria. Tutto ciò comportava uno stretto controllo del comportamento sessuale femminile. Ai gruppi giovanili era affidato il compito di vegliare sulla moralità delle giovani del villaggio. Situazione apparentemente paradossale se si pensa che era soprattutto il giovane maschio che poteva minacciare la purezza delle giovani donne. In realtà i controlli reciproci esercitati dai gruppi giovanili erano essenziali per mantenere stabili i valori della comunità e le effimere alleanze parentali tra contrade. A tal fine era assegnato pure ai gruppi giovanili il compito di impedire che gruppi rivali compissero intrusioni nel territorio del villaggio, minacciando gli equilibri matrimoniali. Nelel vicende esaminate è possibile comunque cogliere anche aspetti definibili più esplicitamente di tipo affettivo. Nel caso di Euriemma il lungo rapporto con il padre (definito dalal documentazione un tipo violento nei confronti della moglie) è importante, anche perché inciderà sulla sua dubbia legittimità. Ma è pure di estremo interesse il rapporto stabilitosi tra Vincenzo Scroffa e la nipotina Polissena; così come il legame tra Laura Ghellini e il padre.
Il termine erede si rifà ad aspetti che già si sono menzionati nel punto precedente, ma qualifica evidentemente pure i diritti della figlia rispetto al lignaggio di appartenenza: nei confronti dei fratelli, ma anche dei cugini e degli zii (vedi Caterina). E non solo. I suoi diritti sono evidentemente di natura individuale, connotati da quello che veniva definito spirito di equità. Il concetto giuridico di agnazione ripreso dai giuristi medievali dal diritto romano, considerava i rapporti di parentela solamente secondo la linea maschile (e paterna), a diversità della cognazione (in cui la parentela era bilaterale, considerata sia secondo la linea paterna che materna). I diritti della figlia erano dunque incontestabili sul piano teorico (in quanto agnate). Nel corso dell’età medievale e moderna il concetto di agnazione viene sostanzialmente manipolato a favore della patrilinearità, conducendo a forme di esclusione come la primogenitura e la dote congrua di cui si parlava poco sopra. Una tensione interna al lignaggio, che utilizza il discorso giuridico a difesa del patrimonio familiare. Va comunque aggiunto che sia la primogenitura che l’exclusio propter dotem o dote congrua dovranno misurarsi nel corso della tarda età moderna con due fenomeni che avrebbero loro assegnato una dimensione diversa: da un lato l’indubbio e progressivo indebolimento del lignaggio di fronte ad un potere politico sempre più invasivo (anche se apparentemente favorevole a quella logica) e, dall’altro, ad una dimensione dell’onore sempre più collegato allo status. E così, paradossalmente le doti si amplificano a dismisura e le primogeniture stesse finiscono per confluire in mani femminili. Un ritorno del tradizionale concetto di agnazione? Un indebolimento della concezione culturale di lignaggio che tende a considerarsi non più in senso estensivo e rivolto al passato, ma solo nella sua linea di discendenza? L’emergere di una gerarchia della ricchezza (che trae la sua legittimità dal denaro) che ambisce a creare alleanze con la tradizionale gerarchia dell’onore, indebolendo così le consolidate alleanze tra i lignaggi aristocratici? Sono problemi di estremo interesse, che hanno comunque al loro centro la figura femminile, in particolare quella di figlia, che svolge un ruolo centrale nella creazione delle alleanze familiari. Una figura sentita al contempo come seria minaccia dell’integrità del patrimonio e del lignaggio, ma anche figura che ne rappresenta, al massimo livello, la rilevanza politica e sociale e le possibilità di accrescimento e di prestigio. Le due vicende di Euriemma e di Polissena sono sono estremamente significative sotto una molteplicità di aspetti. Entrambe rivelano la debolezza del lignaggio qualora esse sfuggano ai consueti controlli e tutele. Entrambe sono eredi (donne) uniche e in assenza di parenti maschi stretti (un’eventualità non così rara). Entrambe hanno di fronte dei lignaggi ancorati (forse non in maniera così salda come sembrerebbe) ad un patrimonio difeso da istituti giuridici stabiliti dagli avi paterni. Entrambe riescono a far riaffiorare i loro diritti individuali e, paradossalmente, la parentela agnatizia. Polissena rientrerà, suo malgrado, nell’alveo del lignaggio del nonno. Ma nella sua vicenda la dimensione politica svolge un ruolo determinante. Non così per Euriemma che, pur partendo da una situazione giuridicamente debole (dubbia è infatti la sua legittimità), riuscirà a far valere una parte considerevole dei suoi diritti. In entrambi i casi, dietro a loro, sono percettibili le mire di altri lignaggi. Ma ciò non toglie rilevanza al ruolo (biografico e di genere) svolto da entrambe.
Il corso si soffermerà su alcune vicende che hanno come protagonista principale una donna nel ruolo di figlia. Ma sarà esaminata pure la figura della vedova e della moglie. Nella più parte dei casi la vicenda è rappresentata da un saggio che ne illustra i tratti salienti. Il caso che ha come protagonista Caterina Corradazzo si costituisce, in un certo senso, come vera e propria introduzione ad alcuni dei temi di fondo affrontati nel corso. Ma anche come una sorta di paradigma interpretativo in cui storia, diritto e antropologia dialogano intensamente per calarsi nel cuore del conflitto. La storia di Polissena è rappresentata in un saggio, pubblicato diversi anni orsono, ma si è ritenuto pure opportuno riportare parte della documentazione allora utilizzata, in particolare i densi consulti scritti da fra Paolo Sarpi. Diversamente, la vicenda di Euriemma Saraceno è seguita soffermandosi su alcuni documenti che meglio si prestano ad illustrarne i problemi più significativi.
Si è ritenuto utile inserire anche una documentazione, cronologicamente successiva, in quanto molti dei problemi emergenti nelle vicende di Euriemma e di Polissena, assumeranno nel corso del Sei-Settecento una delineazione giuridica e istituzionale più chiara e precisa, dovuta essenzialmente alla più incisiva azione di controllo svolta dalle autorità ecclesiastiche e secolari nei confronti dell’istituto famigliare.