Pubblica violenza a danno dei Pietro Santi ed Elena Bertolo ed Antonia avvenuta il giorno 10 ottobre ad imputata opera del loro figlio Andrea Sant, arrestato.
Andrea Santi detto Prussia, calzolaio, d’anni 41, dimorante in San Martino de Lupari, indicato dalla politica autorità per uomo incorreggibile e pericolosissimo, viene imputato del delitto di pubblica violenza mediante minaccie contro i propri genitori ed una sorella, anche con arma alla mano e mediante praticati danni nella casa paterna.
Lo stesso di lui padre Pietro Santi, che volle assoggettarsi ad esame, ne lo dipinge a tristi caratteri prima di devenire al racconto che forma il soggetto dell’attuale sua incolpazione.
Molesto il dice ad ognuno e massime ad esso genitore ed alla madre, solito di minacciarli di volerneli uccidere. Che sia stato, accenna, due volte forzatamente arruolato al miltare servizio, ove ben 33 processi meritato si avesse e sofferto ben cinquemila bastonate.
Che ritornato in seno alla famiglia, una lunga detenzione soffrisse per consimili minaccie a suoi genitori nella casa di correzione in Venezia, da cui ne sortisse nell’agosto passato, alla qual epoca ei lo raccogliesse in famiglia nella lusinga che avesse, una volta addottrinato dalle pene, a cambiar modo di vivere.
Non diversamente il dipinge la stessa di lui madre Elena Bertolo, che volle pure assoggettarsi all’esame, e chiama questo suo figlio ben snaturato, solito a metterle violentemente addosso le mani e aver sulle labbra minaccie di morte contro lei e contro suoi famigliari.
A tal dipintura corrisponde la fedina politica che la regia pretura di Cittadella univa agli atti sul nuovo titolo insorto, ove si leggono 4 di lui condanne, due per offese, l’una per furto ed una prima, nel 1821, pure per percosse, a cui fu associata una sospension di processo per minaccie di vita nel proprio suo padre.
Né diversamente il fa comparire la criminale fedina, che riporta a di lui pregiudizio una sospension di processo in titolo di rapina pronunciata dall’eccelso appello in riforma della sentenza di questo tribunale 19 aprile 1822, che lo avea condannato a 10 anni di duro carcere.
E riferisce una deliberazione in data 3 ottobre 1826 in titolo di publica violenza per opposizione alla forza pubblica, per cui furono rimessi gli atti al militare comando, ignorandosene la decisione.
E finalmente riporta altra sentenza appellatoria 3 giugno 1840 di sospension di processo in titolo di pubblica violenza, in riforma di sentenza per cui era stato a 5 anni di duro carcere condannato nella casa di forza in Padova, con ordine però di rimettere l’inquisito in istato di arresto alla politica autorità.
Al qual fatto vuol alludere il di esso padre, rilevandosi dagli atti di quella inquisizione che le minaccie delle quali era allora accusato il Santi, fossero state dirette oltre che ad altri, ai di lui genitori.
E dalla lista di condotta ivi esistente si giustifica il detto del padre di lui sulle punizioni del figlio durante il militare servizio, riferendosi che per vari titoli ascesero al numero 34, motivo per cui si trovò di richiamar dall’archivio quegli atti e unirli all’attuale procedura, perché ne formano quasi una concatenazione.
Premessa tal dipintura dell’accusato, perché va a riflettersi sul tenor dell’accusa, si va ad accennare il fatto per cui venne il Santi politicamente arrestato il giorno 10 ottobre decorso.
La sera pertanto del lunedì 9 ottobre anzidetto, così narra la madre di lui, s’avvide che il figlio teneva sotto al letto un piccolo sacco di pannocchie di sorgo turco, ma non azzardò di opporsi al trasporto che ne fece presso certo Bonetto di San Martino di Lupari, per non esporsi alle violenze del figlio ed avea ben donde temerne l’audacia. Avvertiva invece il padre, che alle sette della mattina andavale a ricuperare e riportavale a casa.
Passando per la stanza del figlio, così esso soggiunge, il padre, trovavalo a letto, che non erano ancora suonate le otto, rimproveravalo di quella domestica sottrazione, ma desso risposegli che andasse via, che lo lasciasse in pace. E come risposegli sè non essere un di lui servo da cacciarsi in tal modo, balzato il figlio dal letto e in camicia, fecesegli addosso, dandogli un pugno alla schiena ed uno sotto alla tempia destra.
E presolo poscia pel collo dicevagli di volernelo gittar per la scala, che à ben dodici gradini. E fatto egli l’avrebbe se alle di lui grida accorsa non fosse la moglie, che potè liberarnelo ed ei potè passar sulla strada.
La moglie corrisponde al deposto e dice che il figlio era talmente inviperito che ella era certa che ne l’avrebbe gittato giù per la scala se dessa, accorrendo, non avesse liberato il marito dalle mani di questo snaturato lor figlio.
Stando sulla strada raccontava il marito alla moglie ciò che avesse detto al figlio e la risposta che ne avea ricevuta; ed aggiungevale essere lui un galeotto, che senza ragione maltrattava e minacciava di morte i suoi genitori.
Ciò egli intendendo, discendendo le scale ancora in camicia, gli venne dietro nella bottega e coltolo lo percoteva co’pugni sulla schiena, ma fu liberato da Giovanni Conte e Luigi Muraro, che vennero in di lui aiuto.
Il figlio, vedendo che più non potea maltrattarlo, lagnavasi che la madre avesse lui avvisato di quella sottrazione del sorgo e che perciò volevala assolutamente ammazzare. E preso nelle mani dal suo banco un coltello da calzolaio della lunghezza di oltre mezzo piede, si fece ad inseguire la madre.
Stava ella allora sulla strada presso a quella bottega ove si ritrovava e visto che il figlio le correva addosso irritatissimo con quell’arma, gridando, rifugiva verso la piazza, ma li due suaccennati testimoni riuscirono di fermarlo.
Trovatosi a poca distanza l’altra lor figlia Antonia, moglie a Giovan Battista Borsato detto Bagatin, irritato il figlio perché non potè inveir contro la madre, corse dietro alla sorella, che salvossi ritirandosi in casa.
Vedendo il padre che volea perseguitar la sorella, per porre un argine alle violenze del figlio, per vie nascoste riducevasi a denunciarne l’accaduto e poi rifugiavasi in casa del genero Bagatin, ivi celandosi.
Così narrava questa parte del fatto Piero Santi e integralmente vi corrispondeva la moglie, che dice come essa vedendo che preso avea dal banco il coltello e le facevasi a correr dietro, essa si pose parimenti a fuggire, nascondendosi in casa di certo Baetto, ove rimase insino alla sera, quando intese che il figlio era stato arrestato.
Non intese ella che il figlio, quando inseguivala col coltello alla mano, la minacciasse con parole di morte, ma la minaccia gliela fece col fatto del suo inseguimento, che per lei esprimeva ben più che se l’avesse fatta unicamente a parole.
Non direbbe ella che se colta l’avesse, l’avesse anche effettivamente ammazzata, ma qualche cosa fatto certo le avrebbe, e perché avezzo a riporle violentemente addosso le mani e perché la collera in lui era eccessiva, onde ritiene che almeno le avrebbe data una coltellata.
Tanto fu lo spavento del vedersi inseguita con quell’arma, che da quel giorno non si trovò più bene in salute e solo dopo 12 giorni si era alzata per la prima volta dal letto.
Che infermasse la donna dopo quel fatto il dichiaravano Luigi Muraro, che poi non sa dire se in causa del concepito spavento o per altro, la figlia Antonia, che la indisposizione attribuisce a quel fatto, e Giovan Battista Quaggiotto, che riferisce come appunto dopo lo stesso venisse ad infermarsi la donna, sorpresa da convulsioni, calcolando probabile che ciò le succedesse in causa della passione e del concepito timore.
Anche Antonia Santi, sorella all’inculpato, che pure volle essere esaminata, vide il fratello ad inseguire la madre col coltello alla mano e gridavagli che si fermasse, che era quella sua madre che egli inseguiva, ma poco avrebbe ottenuto se non fosse stato fermato dai testimoni.
Ma l’evasion della madre, il concitò contro lei, che nulla fatto gli aveva, e proscioltosi dalle mani delle persone che lo custodivano, le corse addosso, e male sarebbe a lei capitato se visto il pericolo non se ne fosse sottratta ritirandosi in casa, argomentando che ben anche sarebbe stata uccisa comecchè continue erano le minaccie contro di lei di morte e sapea esser violento il di lui carattere e pessima la condotta, onde vedendosi da esso inseguita, fu colta da fortissimo timore, che però non altro le cagionò che un mal stare.
Giovanni Conte accenna che il Santi fosse molto in collera coi suoi di famiglia. Egli sopraggiunse quando inseguiva la sorella, delle precedenze ne intese dagli altri e sentì del coltello, ma desso non glielo vide, abbenchè se lo avesse avuto glielo dovesse aver veduto, tanto più che era in camiccia.
Luigi Muraro vide il Santi ad inseguire la madre, ma fatto breve tratto di strada fu trattenuto e si rivolse a correr dietro alla sorella. Volevasi dalla gente che armato ei fosse di coltello. Parve anche a lui veramente che avesse seco una simile arma, ma non potrebbe assicurarlo con tutta precisione, soggiungendo che la madre, massime se armato egli si fosse, dovea con fondamento temere da lui qualche eccesso, pel violento e bestiale temperamento di lui.
Giovan Battista Milani detto Quaggiotto videlo a dare un pugno al padre, farsi poi contro alla madre, inseguirla con qualche cosa alle mani, che a lui parve esser un coltello da calzolaio, tratenuto da Andrea Smania accorso al romore, poi sfuggitagli la madre rivogersi contro alla sorella. Era colui trasportato dall’ira e se avesse raggiunta la madre l’avrebbe se non ferita maltrattata coi pugni, ed era fugendo erane spaventata.
Andrea Smania lo vide ad inseguire la madre col coltello: accorse per impedire qualche disgrazia. L’udì proferire delle ingurie e minaccie contro di lei, come meritasse che ei l’avesse accoppata. Soggiunse però che intenzione del Santi la non fosse di ferire la madre, perché lasciò agevolmente da esso testimonio persuadersi a lasciare alla madre libero scampo e specialmente perché prima che egli lo raggiungesse, erale sì dappresso arrivato che avrebbe potuto ferirla senza esserne impedito. Dovea però la madre concepirne spavento, massime pel suo temperamento piuttosto bestiale e perché era molto esacerbato ed in collera.
Ma a ciò non si ritenne la rabbia di quel forsennato. Visto che ognuno gli era sfuggito di vista, fè ritorno alla casa, persuaso dalle eccitazioni ancor dello Smania. Ivi a sfogo di rabbia si fece con una sedia a rompere effetti di cucina e quanto gli si parava d’innanzi, sino a che calmossi il suo furore.
Allontanatosi il Milani, ne chiuse le porte in compagnia del Muraro, che attestano dei fatti e disordini che recarono al Santi il danno da lui dichiarato dalle 50 alle 60 lire venete, danneggiamenti questi riferiti anche dal testimonio Conte detto Siton e dalla madre del prevenuto, che ne ebbeli poscia a riconoscere.
Partiva da quella casa che avea quasi dir saccheggiata e partiva con un involto di effetti, cioè con una tovaglia e due o tre camiccie.
La sorella Antonia, che erasi ancora posta alla porta di casa, vedendolo e sembrandogli più tranquillo il fratello, lo ricercò dove andasse e che andava a vendere quella robba, se la fè rilasciare dandogli una svanzich che richiedeva.
Il Conte accenna quel trasporto di effetti, ma dice che trovatolo con quella robba gli ordinasse di riporla ove l’avea egli levata, e che prestando ascolto alle sue parole ritornò verso casa.
Il vedea però il Conte ricomparir di nuovo verso le 11 e per allontanarlo da casa, inconduceva a quella di certo Poato, ove bevettero due scodelle di vino nuovo, poi lo condusse alla propria, ove volle che pranzasse, ma esso Santi partì.
Dopo il pranzo ancor lo rivide e sentendo che volea dirigersi alla casa del Bagatin, ove stava nascosto il padre, se gli fece compagno.
Stava il padre rinchiuso, né volea aprir, ma come il figlio era accompagnato dal Conte, gli venne aperto. Gitossi il figlio in ginocchioni e domandò al padre perdono, che gliel concesse e il figlio gli diede un bacio, dicendogli che andasse ad apparecchiar il pranzo.
Parve al genitore che fosse torvo il figlio e da non fidarsi. E quando era egli sortito diretto alla casa paterna, ei si nascose invece in altra casa.
Il forsennato, non trovando aperta la porta, preso dalla bottega del Milani un mortaio, si fece a rompere un’imposta del balcone della bottega del padre e per essa s’introdusse in casa. Ma le guardie, sopraggiunte poco apresso, ne lo arrestarono.
Ciò risulta cumulativamente dalle deposizioni del padre di lui, del Conte, del Bagatin, del Muraro e del Milani.
Assoggettato ad informativo esame, il Santi ammetteva l’arbitraria disposizione del sorgoturco e dichiarava che, di ciò nella mattina redarguito dal padre come male che il derubasse e minacciato che l’avrebbe fatto deportare in Ungheria, ei conoscendosi piuttosto caldo, si alzasse dal letto senza rispondergli e lo lasciasse a dar sfogo al suo mal umore, allontanandosi da casa. Che col Conte che trovò per via si riducesse alla casa Boato e come trovavasi questi occupato a travasare il vino nuovo, avendone a digiuno bevute alcune scodelle, si alterasse.
E così come era riscaldato dal vino e dal suo temperamento da non saper ciò che si facesse o dicesse, ritornasse a casa verso le due pomeridiane, ove ritrovò il padre che di nuovo gli rinfacciasse la commessa mancanza, dicendogli che presto sarebbero capitate le guardie per arrestarlo.
Ciò gli tolse totalmente l’uso della ragione. Non sa riferire ciò che di lui ne avvenisse, ma ricorda per altro che, entrato in casa e sorpreso dalle convulsioni delle scodelle e pignate, vagò in quelle vicinanze sino a che le guardie lo condussero alle prigioni.
Ma anche dopo che ne partiva dal Boato, allorchè si condusse in casa del Bagatin, ove erasi rifugiato il padre, questi nol rimarcò preso dal vino e che non fosse ubbriaco, il disse lo stesso Conte che accompagnollo, ma il Bagatin dichiarava che gli parve in questo ultimo incontro alquanto preso dal vino.
Devesi avvertire che tanto il padre che la madre dimostrarono il lor desiderio che più lungo tempo rimanesse nel carcere, non potendo più vivere con tale lor figlio ed anzi la madre caldamente implorava che lo si fosse tenuto lontano per la loro tranquillità e personale sicurezza.
Ed il regio commissariato richiedeva che lo si fosse ragguagliato dell’esito della procedura e ritornato in istato di arresto per le successive rigorose misure di polizia.
Voto
La notificazione 26 agosto 1835, numero 29315,1 richiama colpevole del delitto di pubblica violenza chi mediatamente o immediatamente minaccia alcuno, semprechè la minaccia sia atta ad incutere al minacciato un fondato timore, avuto riguardo alle sue relazioni ed alle sue personali qualità, sia che i mali siano diretti contro il minacciato o contro i famigliari o parenti, abbia o no la minaccia sortito l’effetto. E di tal delitto fa responsabile anche allora che così si proceda al solo scopo di cagionare terrore od inquietudine a singole persone.
Non distingue la legge perciò se la minaccia si faccia direttamente alla persona o non alla presenza di essa, se il male minacciato sia male presente o futuro.
L’estremo che ella esige è solo che la minaccia sia tale da incutere fondatamente timore, sia fatta all’oggetto anche soltanto di recare inquietudine e cagionare terrore.
La narrativa delle circostanze che accompagnarono il fatto del giorno 10 ottobre tale rappresentano il Santi da doversi in lui riconoscere se non una determinata volontà di recare ai propri genitori ed alla sorella l’eccidio, un terrore almeno di sé, che doverneli così comprendere, come apparirono che compresi lo fossero.
L’aver preso pel collo il padre, l’avernelo minacciato di gittarlo dalla ben lunga scala, l’inseguir la madre con l’arma alla mano, calcolandola quella che avesse con la sua propalazione a lui procurati i rimproveri del padre, che ben meritava per la indebita sottrazione della cosa paterna; l’aversi rivolto pure con l’arma alla mano contro la sorella, che nessuna parte avea preso in quell’incidente, siccome il palesano di fero animo e truce, manifestano in lui la mala risoluzione di volerneli atterire e se non altro spaventare con quelle terribili minaccie, tanto più terribili quanto che non a parole si restringevano, ma erano accompagnate da atti e con arma atta per sé a far tremare chi se la vedeva da un insecutore rivolta contro la propria esistenza.
Che fondamento avessero quei disgraziati genitori e quella di lui sorella di pur concepire spavento, basta riflettere che conoscitori del carattere del figlio e fratel, pur ben dovevan temere che ad eccessi terribili fosse capace ei di procedere. E tanto più doveano provarne angustia ed affanno quanto che inorridiva la natura a quel trapasso di un figlio e di un fratello.
Che infatti il provassero questo tremore il palesa l’essersi il padre nascoso nella casa del suocero e quindi in un allora, allorchè ritornato il figlio a domandargli perdono, dall’aspetto di lui comprendeva che non era a fidarsi del suo pentimento.
Il dimostra essere stata la madre dopo quel giorno sorpresa da malattia e l’aver dessa stessa al momento dovuto e fuggire e nascondersi, e lo dimostra la sorella che atterita rinserrossi in sua casa al presentarsi del minacciante fratello.
Il fatto quindi veste i caratteri del delitto, avuto massime riguardo che per simili eccessi era già stato processato il Santi, onde maggiore dovea farsi e il timore nei minacciati e la ferocia del minacciante, ben consapevole dell’attrocità del fatto che praticava.
Anche l’altro fatto dei danneggiamenti recati alla casa paterna si presenta coi caratteri di danni maliziosi puniti come delitto di pubblica violenza dalla circolare appellatoria 20 marzo 1826, numero 4125.2
Non potendo desso vendicarsi sulle sacre persone dei genitori, inveiva contro la sorella e questa pure sottrattasi, si rivogliea contro alla sostanza paterna e la distruggeva. Non basta che il facesse al primo incontro, ma getta ancora col mortaio l’imposta per penetrare in casa, quando avea domandato il perdono, mostrando così che simulato con il pentimento e forse a più terribile eccesso allor dimostrato.
La malizia della sua azione sta nell’animo di dimostrata vendetta, che con quelle distruzioni voleva pur cogliere.
Li testimoni presenti ne documentano i fatti, oltre ai genitori altri ancora gli osservano in mano l’arma fatale. E più riportano li praticati danni alla casa e riprovano l’introdotta da lui totale ubbriachezza.
Egli quindi devesi risguardare legalmente indiziato di tale delitto e ben fece la politica autorità a farlo sul punto arrestare e richieder poscia che consegnato gli ritornasse per le più rigorose misure di polizia.
Propongo quindi che ritenuto il fatto del 10 ottobre decorso per delitto di pubblica violenza mediante minaccie e danni maliziosamente recati, sia aperta la speciale inquisizione al confronto dell’imputato Andrea Santi detto Prussia, figlio di Pietro e di Elena Bertolo, con la conferma del politico di lui arresto.
Che sia richiamato dalle carceri della pretura di Cittadella.
Li 7 novembre 1843
Fanzago3
Conchiuso ad maiora col relatore
Nota
Apertasi con odierna deliberazione la speciale inquisizione in titolo di pubblica violenza al confronto dell’arrestato Andrea Santi detto Prussiadi S. Martino di Lupari, di cui versano gli atti accompaganti con nota 28 ottobre prossimo passato numero 204 di codesta imperial regia pretura, la s’interessa a voler provvedere alla traduzione del medesimo a queste carceri criminali.
Vicenza, 7 novembre 1843
All’imperial regia pretura in Cittadella
Referato finale
Assoggetto al vostro giudizio le risultanze dell’inquisizione che in titolo di pubblica violenza mediante minaccie e per danni maliziosamente recati si è ultimata al confronto dell’arrestato Andrea Santi detto Prussia, d’anni 41, calzolaio di San Martino di Lupari, costituito la prima volta nel 18 novembre dell’anno decorso e chiusa la inquisizione nel giorno 23 aprile corrente.
Colla lettura del precedente referato al punto 21, ricorderò al Consiglio la storia di entrambi questi fatti e degli indizi che percuotono l’inquisito.
Nel sommario di lui costituto disse l’inquisito essere inutile che lo s’interrogasse delle sue azioni nel giorno del 10 ottobre, che fu quello delle praticate violenze, perché era talmente ubbriaco da non poterle più rammentare. E contestatogli il suo delitto soggiungeva che potrebbe anch’essere che commesse avesse in quel giorno le stramberie di cui sentivasi accusato, ma di non poter essere delle medesime responsabile, appunto per lo stato di ubbriacchezza in cui allora versava e che non rendevalo conscio di se stesso.
Ristretta a ciò solo la di lui giustificazione, si procedette all’articolato.
Fattegli conoscere le deposizioni di suoi genitori, dalle quali emergeva come ai rimproveri a lui diretti dal padre nella mattina del dieci ottobre per le praticategli sottrazioni del grano turco, balzasse egli dal letto ove a quel punto giaceva, e percuotendolo con pugni ed afferrandolo per il colo lo minacciasse di gettarlo giù dalle scale.
Che egli, a questa prima parte del loro esame, rispondeva sussistere bensì li rimproveri avuti dal padre per la mancanza del granoturco, non così le percosse e minaccie di gettarlo giù dalla scala.
Gli si obbiettò risultare dalle deposizioni medesime come, all’intendere egli i lagni che faceva il padre stando sulla strada di essere in quel modo dal proprio figlio trattato, discendesse egli tutto incollerito ed in camiscia dal letto e recandosi nella strada rispondesse con altri pugni ai lagni del misero vecchio, che sottratto venne da ulteriori maltratti dagli accorsi Giovanni Conte e Luigi Muraro.
Che sfuggito alla di lui colera il padre, cercasse allora di isfogarla sopra la madre, inseguendola con un coltello da calzolaio. E salvata anch’essa dal pericolo di venir maltrattata dal testimone Andrea Smania, giunto a tempo di trattenerlo.
Che trovandosi ivi sulla strada la di lui sorella Antonia, rivolgeva allora da forsenato la sua ira anche contro di essa, che nulla gli aveva fatto e che non sarebbe rimasta immune neppur essa di maltratti se non fosse stata presta di rinchiudersi in propria casa e di sottrarsi da quel minaccioso, armato com’era di coltello.
Quantunque gli si obbiettasse che tutte queste circostanze risultavano in processo deposte non solo dai di lui genitori e sorella, ma benanche dai testimoni Giovanni Conte, Luigi Muraro, Andrea Smania e Giovan Battista Borsato detto Bagattin, egli ammetteva bensì come, sentendo il padre a sparlare di lui sulla strada, discendesse in camiscia e lo percuotesse, inseguendolo con un pugno, ma negava di avere in quell’incontro ammanito alcun coltello ed inseguite minaccioso, con questo, la madre e sorella, che egli non aveva nemmeno vedute. E provocava singolarmente al confronto tutti coloro che pretendevano di averlo in quell’incontro veduto armato.
Per tali sue risposte veniva il prevenuto a declinare, senza accorgersi, dalla prima accampata sua discolpa di non poter essere cioè, stante la piena sua ubbriacchezza responsabile delle proprie azioni in quel giorno, dal momento che alle relative obbiezioni aveva saputo precisarle, escludendo, non senza malizia, quelle soltanto che potevano maggiormente comprometterlo.
Ed egli stesso, difatti, quando si sentì opporre che per le risultanze degli atti non vedevasi sussistere la ubbriacchezza da lui accampata, dovette convenire che questa erasi in lui sviluppata non già alla mattina in cui accaddero li diverbi col padre, ma soltanto al dopo pranzo in cui ebbero luogo li guasti e rotture alla casa ed a danno dei propri genitori, che si sentiva del pari obbiettati.
Guasti che se egli ammetteva di aver praticati, voleva però attribuirli al solo stato della di lui mente, esaltata dal vino e non da alcun sentimento di colera, vendetta e dispetto, come sentivasi obbiettato.
Gli si fece conoscere quale e quanto spavento avevano quel minaccioso di lui contegno ed espressioni di quella mattina incusso ai propri genitori e sorella, se il padre era stato costretto a nascondersi nella casa del genero Borsato, senza più arrischiarsi di coabitare col figlio; se la madre, oltre dall’essersi anch’essa nascosta, fu sorpresa da malattia, che la tenne per più giorni obbligata a letto; e se, non senza molta inquietudine rimase anche la sorella, appunto perché conoscevalo di un carattere sì violento e fiero da renderlo capace di qualunque eccesso.
E qui, onde viemeglio si persuada il Consiglio quanto ragionevoli e fondati esser dovessero li timori ed inquietudini nei minacciati, per altri precedenti eccessi di quel mostro, non può il relatore dispensarsi dal porgere lettura del referato che diede luogo per consimili fatti ad altra precedente inquisizione, che si credette opportuno di unire alla presente: fatti dai quali il Consiglio potrà rilevare che non senza ragione puossi colui proclamare per un mostro di qualunque eccesso capace e purtroppo quindi temibile. Leggasi il referato al punto XXII del volume II.
L’inquisito, come si disse, aveva provocato il confronto soltanto di quelli che avevano asserito di averlo in quell’incontro veduto ad inseguire minaccioso la genitrice e sorella, col coltello da calzolaio alla mano.
Quelli che avevano ciò deposto si erano l’Antonio Smania, l’Antonia Santi sua sorella e Giovan Battista Milani. Li primi due hanno ciò ripetuto e confermato senza alcuna esistanza, anche sulla di lui faccia. Ed egualmente ripeteva e confermava il terzo essergli sembrato appunto un coltello quello che aveva in pugno quando inseguiva la madre.
Deviava l’inquisito, nel sentirsi ciò confermato, dalla prima assoluta sua negativa, ammettendo di avere fors’anche in quell’incontro avuto fra le mani quel coltello da calzolaio di cui facevano cenno li testimoni, standosi quell’arma sul panco da cui erasi a quel punto distaccato.
Per un rispetto ai legami di sangue s’è creduto di risparmiare il confronto dei di lui genitori Pietro ed Elena, che lo avevano anch’essi veduto armato di coltello nell’atto d’insecuzione, confronto che sarebbe stato d’altronde inutile, dopocchè lo stesso inquisito più non insisteva a negare siffatta circostanza.
Non poteva finalmente giovargli l’introdotta piena sua ubbriacchezza, alla quale voleva attribuire gli operati guasti alla casa ed a danno del padre, s’egli già rammentava di averli commessi e se ebbero questi luogo subito dopo le minaccie e quindi in quelle ore antemeridiane in cui, allo stesso suo dire, non era preso di ebbrezza, che diceva essersi in lui sviluppata soltanto nel dopo pranzo.
Con tali risultanze si chiuse la procedura contro di esso inquisito. Il di lui contegno, sì in carcere che dinanzi al Consiglio, non diede luogo a rimarchi. E’ di un fisico giudicato suscettibile agli inasprimenti di legge.
Voto
Ritenute le considerazioni già fatte nella precedente sessione del 7 novembre prossimo scorso, per le quali sussistenti e provati si viddero ambidue li fatti imputati all’inquisito Andrea Santi detto Prussia, ed aventi tutti e due li caratteri della publica violenza, l’uno mediante minaccie e l’altro per danni maliziosamente recati, non si occuperà ora il relatore che nella dissamina sulle prove.
Non era la prima volta che quello snaturato figlio minacciasse la esistenza di quelli ai quali doveva egli la sua.
Non era la prima volta che da iniquo mettesse le mani adosso a coloro che avevano da lui il diritto alla maggiore riverenza e riguardi.
E non era la prima che di timori, angustie ed inquietudini amareggiasse la vita di persone ch’egli era in dovere, massime nella loro vecchiaia, di confortare e sostenere, costringendole persino di abbandonare il domestico asilo e rifuggiarsi altrove per sottrarsi dalla colera e furore di quel mostro.
Sia pure, ed accolgasi pure per non far onta alla umana specie, la presunzione che la mente e la mano per orrore gli mancassero nel mettere ad effetto ciò che minacciava, brattando la mano sacrilega in quel sangue per il quale correva nelle vene il suo, sarà sempre vero che sua intenzione si era quella almeno di malvivere e portare spavento ed inquietudine a chi minacciava, se come altre volte anche in questa lo si vede afferrare per il colo il vecchio padre, percuoterlo con pugni, inseguire dipoi con coltello la madre, e per ultimo la sorella, che non trovarono tutti e tre altro scampo per sottrarsi dalle minaccie di quel furibondo che di rinchiudersi nella prima casa ove avevano potuto porre il piede, senza arrischiarsi li genitori di far capo alla propria in timore di peggio.
Conoscevano essi difatti, per replicate anteriori esperienze, l’indole fiera di quel ribaldo, sempre dimentico per essi di qualunque riguardo, sempre sordo alle ammonizioni, mai corretto per castighi e di tutto capace. Non senza fondamento adunque li veggiamo tremebondi in faccia di tal minaccioso ed inquieti pel loro destino.
Assicurati pertanto quegli estremi costitutivi il contestatogli delitto di publica violenza, che si riconobbero già sussistenti anche nella precedente sessione, basterà richiamare alla mente le risultanze degli atti relativi alla presente inquisizione per conoscere essere li medesimi più che sufficienti a provare legalmente la colpa dell’accusato.
E difatti, oltre le giurate deposizioni dei suoi genitori, che andando a colpire un loro figlio non dobbiamo temere esagerate, e che per essere conteste sul punto principale della minacciosa insecuzione armata mano del figlio Andrea verso la madre, basterebbe anche per sé sola a provarla, vi hanno le deposizioni altresì di più testimoni e fra gli altri dell’Antonia sorella dell’imputato, parimenti anch’essa inseguita col coltello; di Andrea Smania e Giovan Battista Milani, confermati anche al confronto di esso inquisito, li due primi di averlo veduto ad inseguire minaccioso la genitrice col coltello alla mano, ed il terzo con in pugno un istromento che anche a lui era sembrato un coltello.
Si vedrà poi, con pari evidenza, comprovato lo spavento, od almeno la inquietudine, che devono aver concepito li minacciati dal contegno ed espressioni di quel minaccioso, al solo ricordare chi colui si fosse; al ricordare i pericoli ed i cimenti in cui eransi altre volte ritrovati di rimaner vittime dall’insensato di lui furore; scene tutte che generar dovevano le più gravi angustie nel vederle rinovate.
Se veggiamo poi li minacciati fuggire e rinchiudersi per evitare lo scoppio delle minaccie, se veggiamo in causa delle stesse sorpresa da malattia la misera madre, che più esigere potrebbesi per ritenere sussitente e ben fondato sì lo spavento che la inquietudine del minacciante intorno ai minacciati?
In quanto all’altro fatto dei danni recati alla casa ed a danno del di lui genitore, furono questi ritenuti maliziosi perché operati per far onta e dispetto al padre sfuggitogli dalle mani, facendo così scoppiare la propria colera sulle di lui sostanze, se non lo aveva appieno portato sulla di lui persona.
Questi danni furono già da lui giudizialmente confessati, ed essendo li medesimi nella maggior parte avvenuti subito dopo le minaccie e quindi nelle ore antemeridiane, in cui egli stesso ammetteva di non essersi trovato in quello stato di ubbriacchezza che diceva essersi in lui sviluppata solo nel dopo pranzo, non potrebbe più reggere l’accampata scusa di aver agito da ubbriaco, scusa d’altronde rimasta senza prova.
In quanto alla pena, sì quella per le minaccie che per le considerazioni sovraesposte si dovrebbero credere tendenti a sole offese corporali, quanto l’altra per li danni avrebbero, per il disposto del paragrafo 3 della legge 19 agosto 1835 e paragrafo 74 del Codice penale, l’eguale misura di sei mesi cioè ad un anno di carcere.
Potendo peraltro venir accompagnata la prima a norma dei casi anche col carcere duro, sarebbe la medesima a riguardarsi per la più grave dell’altra, che resta perciò in quella compenetrata.
Qual altro caso poi più particolare e grave di questo si potrebbe esigere per applicare all’imputato non solo tutta la estensione, ma ben anco tutto il rigore della pena in quel paragrafo contemplato?
Trattasi di un soggetto sommamente tristo e pericoloso alla esistenza massime dei suoi congiunti; di un soggetto macchiato di tante precedenti censure, inutilmente per tante volte con punizioni corretto e contro cui sta in aggiunta l’altro contestatogli delitto di una publica violenza di diversa natura; e trattasi infine di fatti che assumono un carattere ancor più serio, perché diretti a danno di chi sì prossimamente gli è vincolato per sangue.
Sono anzi tali e tante sì aggravanti circostanze non attenuate da veruna a favore, da determinare il referente ad aggiungervi anche l’inasprimento del publico lavoro.
Conchiudo quindi proponendo che Andrea Santi detto Prussia sii dichiarito per prove testimoniali colpevole del delitto di publica violenza mediante minaccie.
Che sii dichiarito altresì colpevole per propria confessione del delitto egualmente di publica violenza mediante danni maliziosamente recati.
Che sii condannato alla pena di un anno di carcere duro innasprito dal publico lavoro da espiarsi nella casa di forza in Padova ed al pagamento delle spese processuali e di vitto e tassa della sentenza in fiorini 12, sotto la solita riserva, ommesso di pronunziare sopra il risarcimento dei danni, stante rinuncia dei coniugi Pietro ed Elena Santi.
Stante la qualità del titolo, saranno rassegnati gli atti e la sentenza alle superiori deliberazioni.
Li 23 aprile 1844
Fostini
Conchiuso ad unanimia per la colpabilità.
Conchiuso ad maiora per la condanna ad anni 5 di duro carcere sopra la diversa applicazione di legge.
Preso in esame il processo costrutto sopra titolo di publica violenza mediante minaccie e mediante danni maliziosamente arrecati ad imputazione di Andrea Santi detto Prussia, costituito la prima volta il 18 novembre 1843 e l’ultima nel giorno 23 aprile 1844, veduta la consultiva sentenza dell’imperial regio tribunal provinciale di Vicenza in sede criminale 23 aprile 1844, numero 4709, con cui venne dichiarato colpevole esso inquisito Santi mediante minaccie e mediante danni maliziosamente recati del delitto di publica violenza a lui imputato e come tale è stato condannato alla pena del duro carcere per anni cinque, da espiarsi nella casa di forza in Padova ed al pagamento delle spese di legge con le relative riserve, ommesso il giudizio sul danno, stante la rinuncia della parte offesa;
questo imperial regio tribunale di appello e superior giudizio criminale, in conferma e riforma della predetta sentenza 23 aprile 1844, numero 4709, dichiara essere colpevole il summentovato inquisito Andrea Santi denominato Prussia dell’attribuitogli delitto di publica violenza mediante minaccie e mediante danni maliziosamente recati, e come tale lo condanna alla pena del duro carcere per un anno, da espiarsi nella casa di forza in Padova ed al pagamento delle spese processuali, alimentari e di fiorini 12 per tassa della sentenza, colle riserve del paragrafo 537 del Codice dei deltti.
Col ritorno degli atti processuali ciò si comunica per la pubblicazione ed esecuzione.
Dall’imperial regio tribunale d’appello generale
Venezia 21 maggio 1844
All’imperial regio tribunale provinciale in Vicenza
1 Il testo della risoluzione sovrana del 1835 è riportato in Ritorno a casa.
2 Ci si riferisce quasi sicuramente alla risoluzione sovrana del primo febbraio 1826, riportata in appendice (num. XXXVII) dell’edizione del Codice del 1849: “Sulla proposizione di una nuova legge sui danneggiamenti maliziosi, ma lievi, dell’altrui proprietà venne dichiarato dover star fermo il disposto del paragrafo 74 del Codice penale, parte prima, della cui esatta osservanza restano responsabili le autorità giudiziare (Risoluzione sovrana del primo febbraio 1826, pubblicata colle notificazioni governative di Milano del 22 aprile 1826, numero 11756, e di Venezia del 3 maggio susseguente, numero 14874)”, cfr. Codice penale…, ediz. 1849, p. 233.
3 Il referato iniziale venne dunque stilato dal giudice Fanzago. Il processo proseguì poi con la speciale inquisizione e il referato finale venne stilato dal giudice Fostini. Su quest’ultimo cfr. le relazioni stese intorno a questi anni in C. Povolo, Rapporti dell’imperial regio tribunale di Vicenza all’imperial regio tribunale d’appello in Venezia (anni 1842-1844)