16 Il Frangia

Atti di preliminare investigazione in titolo di grave ferimento riportato nella sera del 6 marzo 1848 da Giovanni Chemello di Sandrigo ad imputata opera di Giovan Battista Lavarda fu Antonio detto Frangia di Breganze

Nella sera del 6 marzo prossimo passato, il villico Giovanni Chemello di Sandrigo riportò una ferita di coltello alla faccia, la quale fu giudicata grave senza pericolo nella giudiziale ispezione.

L’offeso accusa per suo feritore Giovan Battista Lavarda fu Antonio detto Frangia ed espone il fatto nel modo seguente.

Sortendo in detta sera dall’osteria di Giovanni Bonato detto Moro in compagnia di Stefano Lovo ed Antonio Moro, un po’ avvinazzato ed avviatosi per la strada dei capitelli, raggiunse Giovan Battista Lavarda detto Frangia e Marco Rigon, sortiti poco prima dalla stessa osteria, ai quali diresse amichevoli parole, dando anche un bacio al compaesano Rigon.

Avendo voluto dare la stessa dimostrazione d’affetto anche all’altro villico di Breganze detto Frangia, questi gli menò un forte colpo alla guancia destra, per cui cadè a terra, accorgendosi di essere rimasto ferito.

Alla lettura dell’esame aggiunse l’offeso di ricordarsi di essere stato il primo a provocare il Frangia con un pugno.

Tra gli esami dei testimoni che furono assunti, sono integranti quelli di Stefano Lovo e di Antonio Farisin detto Moro, i quali erano partiti dall’osteria col Chemello.

Riferisce il Lovo che al sortire dall’accennata osteria dirigevasi col Moro per andare a filò, ma che il Giovanni Chemello, il quale era corso avanti, li distrasse da tale progetto.

Racconta che il detto Chemello aveva raggiunto Marco Rigon e il Frangia, coi quali erasi posto a dialogare amichevolmente, avendo anche veduto il Chemello a baciare il Rigon.

Che il Rigon se ne partì e che rimasti il Frangia col Chemello continuavano a dirsi: “Siano amici”, per cui esso testimonio, credendo tutto finito, si allontanò un poco, quando tutto ad un tratto vide il Frangia che senza cappello in testa si dava a corsa precipitosa ed intanto, sopraggiunto il proprio compagno Antonio Moro, gli disse che il Frangia aveva ferito il Chemello.

Antonio Farisin detto Moro, accordandosi nel resto col detto del suo compagno Stefano Lovo, attesta di aver veduto il Chemello a dare una spinta piuttosto forte al Frangia, il quale perdette il cappello e di avere pure veduto il Frangia a mettere una mano in saccoccia e ritirandola subito dopo a menare un colpo al Chemello, il quale gridò: “Gesù Maria, son morto”, dandosi il Frangia alla fuga.

Nulla sa riferire Marco Rigon, compagno del Frangia, per averlo lasciato prima che si appiccasse il diverbio col Chemello.

Nicolò Chemello detto Balosato vide che il Giovanni Chemello dava una forte spinta al Frangia e che questi si avventava contro di esso, ma essendo l’ora tarda e trovandosi a qualche distanza non potè rimarcare l’atto del ferimento, ma può assicurare l’aver veduto il Frangia a fuggire con un coltello in mano.

Gli altri testimoni esaminati, Giuseppe Sabin, Matteo Poletto, Matteo Chimello, Angelo Scaffa, non furono presenti al fatto e solo riferirono di aver veduto il Chemello ferito per opera, a quanto diceasi, del Frangia.

Sentito questi riservatamente, confessò di aver ferito il Chemello, ma vuole averlo fatto per necessità, onde non essere prevenuto dall’avversario, che pure lo minacciava con un coltello.

Quantunque l’autorità politica indichi il Frangia di carattere violento e dedito alle risse, pure egli non ebbe alcuna fiscale censura, nè politica, né criminale.

Voto

Per l’ufficiale denuncia, per la giudiziale ispezione, per l’esame dell’offeso e di più testimoni, consta legalmente della sussistenza del grave ferimento riportato da Giovanni Chemello nella sera del 6 marzo prossimo passato.

Quale autore del delitto apparisce evidentemente indiziato Giovan Battista Lavarda detto Frangia, per le deposizioni del danneggiato e dei testimoni Stefano Lovo, Antonio Farisin e Nicolò Chemello; e per le stesse sue dichiarazioni con cui ammette di aver impresso la ferita, non potendosi poi calcolare la pretesa sua giustificazione di averlo fatto per necessità, onde non rimanere soccombente, mentre tale giustificazione sussisterebbe in qualunque rissa, nei quali fatti non può applicarsi la necessaria difesa contemplata dal paragrafo 127 Codice penale, parte prima.1

Di più sarebbe in ciò smentito dai testimoni, dalle cui deposizioni risulterebbe tutt’al più una provocazione per parte del Chemello, provocazione da non calcolarsi che quale circostanza mitigante.

Concorrendo però nel Frangia, a parere del relatore, gli estremi del paragrafo 306 del suddetto Codice2, proponesi che in titolo di grave ferimento si debba aprire la speciale inquisizione in confronto di Giovan Battista Lavarda detto Frangia di Breganze, a piede libero sotto la promessa di legge.

Vicenza, 8 agosto 1848

Bertagnoni

Conchiuso ad unanimia

Causa criminale chiusa a sentenza in confronto di Giovan Battista Lavarda detto Frangia d’anni 20, calzolaio di Breganze, celibe, scevro da censure, imputato di grave ferimento in danno di Giovanni Chemello di Sandrigo, sentito in sommario costituto l’11 settembre 1848 e nelle finali dichiarazioni il 20 marzo 1849, inquisito a piede libero, di un contegno regolare e di buona salute, come risulta anche dal rapporto medico

Preleggo il referato 8 agosto 1848 alla pagina 27.

Sentito il Frangia a costituto sommario e prima che gli disse l’imputazione, espose che nel giorno 6 marzo 1848, che fu l’ultimo del carnovale, erasi recato a Vivaro per tenere un bambino al sacro fonte, e che di ritorno da colà erasi abbattuto in Sandrigo nel suo conoscente Marco Rigon, il quale lo invitò a passar seco la sera; che recatisi all’osteria di Giovanni Moro, dove eranvi degli altri giovani di Sandrigo, si trattennero con essi in buona armonia.

Ma che usciti di là e fatto breve tratto di cammino, furono inseguiti da quegli stessi che si trovavano nell’osteria, tra i quali eravi Giovanni Chemello, il quale col pretesto di voler dare un bacio gli diede un pugno col pugnale d’un coltello che teneva in mano, per cui, vedendosi in pericolo perché attorniato dagli altri compagni del Chemello, estrasse il proprio coltello ronchetto serramanico e con questo ferì il Chemello, dandosi poi alla fuga.

Nel costituto ordinario gli si fecero conoscere le deposizioni del danneggiato, il quale confessava di avergli bensì dato una spinta, ma escludeva assolutamente, anche dopo riassunto sotto il vincolo del già prestato giuramento, di aver inveito contro di lui col coltello.

Gli si disse che nessuno dei testimoni corrispondeva a tale introduzione di esso inquisito, ma egli persistè nel suo piano di difesa, dicendo esser naturale che i compagni del Chemello deponessero in di esso favore.

Gli si disse che l’offeso liquidava il suo danno in venete lire 100, al che rispose che nulla doveva pagargli, perché il danno se lo aveva procurato egli medesimo.

Né valse a convincerlo della insussistenza della sua difesa il confronto a cui fu assoggettato col Chemello, il quale gli sostenne in faccia di essere stato da lui ferito col ronchetto dopo che esso gli diede un pugno, protestando che non aveva coltelli e che il fatto era avvenuto come aveva deposto ne’suoi esami.

Proseguendosi quindi nell’articolato, gli si fece conoscere che confesso egli del fatto di aver impresso la grave ferita al Chemello, non poteva esonerarlo da risponsabilità penale la sua introduzione di aver agito per difendersi, mentre era in suo potere di evitare la rissa; e in ogni ipotesi di prendere la fuga trovandosi in una strada aperta ed essendo giovane e vigoroso, per cui non poteva nemmeno sorgere l’idea di quella giusta e necessaria difesa che contempla la legge.

A ciò rispose che non era fuggito perché non aveva alcun torto e quindi volea dire le proprie ragioni, avendo poi agito per difendersi allorché si vide minacciato.

Gli si disse allora che in tal modo egli avrebbe agito non per necessaria difesa, ma piuttosto dietro una provocazione, la quale potrà scemare l’imputabilità del fatto, ma non esonerarlo da qualunque risponsabilità, ed essendosi riportato alla decisione che farà il tribunale, si chiuse il processo senza ch’egli aggiungesse ulteriori dichiarazioni.

Voto

Nulla è a soggiungersi sulla sussistenza e qualifica del fatto dopo il conchiuso dell’8 agosto prossimo passato.

Quanto alla prova di colpa a carico dell’inquisito, questa la si ravvisa raggiunta in base al paragrafo 413 del Codice penale, parte prima3, perché confesso egli del fatto di aver ferito il Chemello e poi convinto della sua prava intenzione, ch’egli vorrebbe escludere coll’introdurre di aver agito per difendersi.

Ma, come si è già opposto anche all’inquisito, non sarebbe questo il caso di una necessaria, giusta difesa contemplata dal paragrafo 127 del Codice penale parte prima, risultando dalle circostanze di tempo e di luogo ch’egli poteva evitare la rissa e in ogni modo darsi alla fuga quando vedeasi minacciato, per cui la provocazione e non la necessità della propria difesa lo spingeva al delitto.

Di questa provocazione però, confessata dallo stesso offeso, si dovrà fare calcolo come circostanza mitigante nell’inflizione della pena, come pure si dovranno calcolare quali mitiganti le circostanze della sua giovane età d’anni 19 all’epoca del delitto e la sua precedente condotta scevra da fiscali censure, per cui, e non essendovi alcuna circostanza aggravante, troverei applicabile il paragrafo 48 del Codice penale4 per poter accorciare la durata del carcere, che sarebbe prescritto dal paragrafo 1385 fra sei mesi ed un anno.

E quindi proponesi che dichiarato colpevole Giovan Battista Lavarda detto Frangia dell’imputatogli delitto di grave ferimento, lo si condanni alla pena del carcere per mesi due, da espiarsi in questi recinti carcerari, al risarcimento del danno verso l’offeso Giovanni Chemello, da liquidarsi in separata sede civile ed agli accessori di legge.

Vicenza 20 aprile 1849

Bertagnoni

Conchiuso ad unanimia.

1 Un paragrafo di estrema importanza, che concerneva la rilevanza assegnata dal Codice penale austriaco alla legittima difesa: “Chi nell’opporre una necessaria giusta difesa uccide un altro non commette alcun delitto. Bisogna però che sia provato o che con fondamento risulti dalle circostanze di tempo, di luogo e delle persone, essersi dall’uccisore impiegata una necessaria difesa a preservazione della propra od altrui vita, sostanza o libertà”, cfr. Codice penale…, p. 44.

2 Il paragrafo che determinava i requisiti necessari perché l’imputato potesse rimanere a piede libero sino alla conclusione del processo, cfr. Codice penale…, pp. 99-100.

3 Paragrafo tratto dal capitolo dedicato alla “forza legale delle prove”: “Quando l’imputato confessa bensì il fatto, ma nega la prava sua intenzione deve considerarsi se secondo le circostanze ch’emergono dall’inquisizione il fatto sia succeduto repentinamente ovvero se l’autore del medesimo abbia impiegati de’ mezzi per prepararlo od abbia procurato di allontanarne gli impedimenti. Nel primo caso in tanto può aver luogo la discolpa in quanto non dovesse dall’azione secondo l’ordine naturale delle cose derivar necessariamente il male, ch’è avvenuto. Ma se l’imputato ha preparata l’occasione ed i mezzi ad eseguire il fatto deve ritenersi convinto anche della prava intenzione, quando però dal processo non risultino particolari circostanze che lascino luogo a ragionevolmente riconoscere un’intenzione diversa”, cfr. Codice penale…, pp. 145-146.

4 “Solamente ne’ delitti pe’ quali la pena è determinata ad un tempo non maggiore di cinque anni può il carcere essere ridotto ad un grado più mite od esserne accorciata la durata legale nel caso che concorrano tali e tante circostanze mitiganti che lascino luogo a sperare con fondamento l’emendazione del reo”, cfr. Codice penale…, p. 21.

5 Nei casi più gravi di ferimento, previsti dal Codice nel paragrafo 137, la pena era del carcere duro da uno a cinque anni. Il paragrafo 138 recitava invece che “i gravi ferimenti e le gravi lesioni non espresse nel precedente paragrafo sono punite col carcere fra sei mesi ed un anno”, cfr. Codice penale…, pp. 46-47.