Furto [a] danno di Domenico Santi detto Rosso di S. Martino di Lupari nella notte 15 al 16 aprile anno corrente contro Antonio Sartoretto detto Boaro arrestato, e sospetto complice Giacomo Miotello
Nella notte delli 15 a i 16 decorso aprile venne mediante rottura commesso un furto a danno di Domenico Santi detto Rosso di S. Martino di Lupari.
Il furto consiste in due pignate di rame, l’una grande e l’altra meno, sette pezze formaggio del peso di libre dieci l’una, due panzette di porco salate, d’una dindiotta, cinque morelli di luganica e due visiche empite di grasso di porco, il tutto del complessivo valore di lire 209 venete.
I ladri appariscono introdotti nel cortile della casa del Santi mediante scallata del muro confinante coll’orto di certo Toma, e pervenuti nel cortile, poterono poi entrare dalla porta della sala, che in quella notte non era chiusa che col saliscendi, a motivo che il servo del Santi era[si] in quella notte verso la mezzanotte partito con un barra.
Dovettero poi sforzare il luchetto e scendere dal guarda robba, onde levare il formaggio e gli effetti porcini, come si rilevò dalla giudiziale ispezione.
Vari erano i sospetti formati sopra diverse persone, e quindi fu creduto conveniente di praticare alla casa delle medesime una perquisizione, ed in fatti questa ebbe un utile effetto alla casa di Antonio Sartoretto detto Boaro, essendovi ivi rinvenuti tutti gli effetti rubbati, cioè le sette forme di formaggio, una delle quali già tagliata ed in parte mancante, la dindiotta, le due panzette di maschio rinchiuse in una cassa e le due pignate rame nascoste sotto terra nell’orticello del Sartoretto; ciò che tutto venne dalle guardie preso in custodia e trasportato assieme ad un coltello accuminato e fermo in manico al commissariato distrettuale di Cittadella, da cui venne ordinata la perquisizione, e fatto eseguire l’arresto del predetto Antonio Sartoretto, rimettendolo poscia a quella pretura.
Eseguita pertanto la verificazione del fatto, e sentito in costituto somario l’arrestato Sartoretto, ebbe questo ad ammettere il ritrovo nella di lui casa degli indicati effetti commestibili, e nell’orto sotto terra le due pignate rame.
Ma nega però di avere rubbati li sudetti effetti, introducendo che in quella notte del furto egli si era portato per tempo a dormire alla propria abitazione, e che svegliatosi un’ora avanti giorno, si alzasse dal letto, e si reccasse ad orinare sotto il porticale di quella casa, ed ivi rinvenisse tutti quei effetti, che egli raccolse e rinchiuse, cioè li commestibili nella sua cassa, e nascose le pignate sotto terra nell’orto, con intenzione, disse egli, di consegnare poi il tutto al padrone, allorchè fosse venuto in cognizione a chi appartenessero.
Dichiarò di non poter somministrare alcuna prova di tale ritrovo, e nemeno che egli in quella notte si fosse sempre rimasto a letto, mentre egli dorme da solo in quel locale.
Accordò d’avere pratica della casa del Santi per esservi stato un anno intiero al di lui servizio in qualità di boaro.
Disse d’essere solito di portare e vendere tabacchi di contrabando, onde ritraere da ciò un qualche guadagno.
Il Sartoretto apparisce dalle fedine criminali e politiche mai sottoposto ad inquisizioni o condanne, ma peraltro le informazioni ritirate sul di lui conto lo dichiarano di pessimo carattere, d’una condotta riprovevole, dato al vizio, alle osterie ed al giuoco, e generalmente sospetto di furti.
Ed anzi la pretura unì a questi atti due accuse pendenti contro il Sartoretto di grave trasgressione di polizia in punto di furto, l’uno cioè a danno di Sebastiano Fabbio d’un fascio di fassine, l’altro a danno di Sebastiano Petrin di quattro lattole e d’un grosso legno da opera, accuse che vengono per ora abbinate a questi atti criminali e di cui mi riservo parlarne più diffusamente a suo luogo e tempo.
Intanto rassegno a questo conciglio il seguente
Voto
Il furto avvenuto nella notte dalli 15 alli 16 aprile a danno di Domenico Santi è verificato dalla deposizione di questo e de’suoi domestici, non che dalla seguita giudiziale ispezione.
Questo furto si qualifica a delitto per dupplice circostanza, cioè pel valore delli effetti rubbati oltrepassante li fiorini 25, e per il luogo chiuso in cui avvenne1.
Auttore di tale furto ne apparisce legalmente indiciato l’arrestato Antonio Sartoretto detto Boaro dall’essersi rinvenuti presso di lui tutti gli effetti rubbati, e riconosciuti per tali dal derubato Domenico Santi.
Pretende il Sartoretto d’aver rinvenuti questi effetti nel suo porticale, ma egli non indica alcuna prova su di ciò.
Anzi, attesa la sua cattiva fama, l’avere egli non palesato a chichesia un tale ritrovo, l’averne tagliata una delle pezze di formaggio e l’avere nascosti quei effetti parte nella cassa e parte sotto terra nell’orto, si ha fondamento di tenere falsa [la] di lui introduzione, e di tenere vieppiù fermo l’indizio che egli ne fosse l’autore del furto in discorso.
Egli è perciò che propongo che, ritenuto il furto a danno di Domenico Santi a delitto, e legalmente indiciato auttore del medesimo il nominato Antonio Sartoretto detto Boaro, confirmando il di lui arresto, sia aperta contro di lui la speciale inquisizione.
Vicenza, lì 8 giugno 1830
Cavazzani
Conchiuso ad unanimia
Relazione seconda
Nel giorno 8 giugno corrente questo collegio decretò aperta la speciale inquisizione in confronto di Antonio Sartoretto detto Boaro di S. Martino di Lupari, come legalmente indiziato autore di un furto di effetti perpetrato la notte 15 al 16 aprile decorso a danno di quel Domenico Santi.
Gl’indizi di reità che contro il Sartoretto stavano si desumevano dal rinvenimento in di lui casa e nascosti di tutti gli effetti derubati e dalla pessima di lui fama, per cui venne tosto arrestato.
Nei suoi primi costituti, egli negò il furto, ma confessò di aver rinvenuti gli effetti perquisitigli nella mattina 16 aprile decorso sotto il portico del suo cortile, senza sapere da chi fossero stati colà riposti.
Disse di averli poi egli stesso nascosti parte in casa e parte sotterati nell’orto, con intenzione di restituirli allorquando avesse conosciuto il padrone, e di tale sua introduzione di averli rinvenuti, per sé stessa inverosimile, non sa darne prova.
All’atto pertanto che si passò a contestargli il delitto, disse che avea meglio pensato sull’accusa che lo risguarda, e che volea quindi confessare ogni cosa alla giustizia.
Dichiarò dunque che nella mattina 16 aprile decorso, successiva al furto, sentì a picchiare la porta della di lui abitazione ed intese la voce di Giacomo Miottello che lo chiamava dicedogli: “Toni vien zo che te vogio dire una parola” e, portatosi a basso, lo pregò che raccogliesse e custodisse gli effetti di poi perquisitigli, e che nella sera del giorno stesso sarebbe venuto a riprenderli.
Disse che in sulle prime si rifiutò di riceverli sul timore che fossero di furtiva provenienza, ma che finalmente accedette alle replicate preghiere, in vista che il Miottello gli assicurava di averli ritrovati.
Dichiarò di essersi determinato a nasconderli perché era stato di così fare pregato dal Miottello, e soggiunse ancora che nell’atto delle preghiere gli disse le precise: “Custodisemeli Toni, giacchè tu che non sei stato mai in vista della giustizia, niente ti può succedere, e se al contrario li tengo appresso di me, essendo stato a prigione, potrei espormi in faccia alla medesima; in ogni caso poi, se vieni per questo arrestato, dici di averli tu rinvenuti, mentre stando sulla negativa non potranno condannarti”.
A fronte di tali avvertimenti vuole infingere il Sartorello che non avea scienza che quelli effetti potessero essere di furtiva provenienza, ma che solo lo sospettava, ripetendo che si avea senz’altro determinato di nasconderli, perché il Miotello glielo avea ordinato, dicendo di averli rinvenuti.
Dirò che il Miotello è uno di quegli individui che la sua deputazione comunale indicò come sospetto di questo furto, per essere di cattiva fama, amico e fedele compagno di osteria del Sartoretto e privo di mezzi di sussitenza.
Dalla fedina politica risulta condannato a 9 giorni di arresto nel 1826 per insulti e dalla criminale scevro apparisce da precedenti censure.
Sopra questi risultati rassegno il contrascritto subordinato
Voto
Essendo stato nella sessione del giorno 8 giugno ritenuto verificato il furto di cui si parla a delitto, e dello stesso legalmente indiziato autore Antonio Sartoretto, non d’uopo ora farne parola e solo devesi versare e conoscere se dietro le nuove emerse risultanze sia abbia raggiunto un indizio di reità anche contro Giacomo Miottello.
Perché la manifestazione d’un inquisito produca un indicio legale contro una terza persona che accusa del delitto medesimo, vuole la legge nel paragrafo 2652 che la manifestazione abbia diversi requisiti, cioè che il manifestante sia correo, che egli abbia confessato il delitto, che spontanea sia la di lui manifestazione, senza che siagli fatto cenno d’una determinata persona, e che corrispondi alla circostanza del processo.
Nel caso presente si tratta di un furto di cui il Sartoretto non è confesso, e questo accusa il Miotello non già di furto, ma di una truffa a lui dal medesimo confessata nell’atto che gli disse aver rinvenuto quei effetti e lo pregò di nasconderli.
E quindi nasce il dubbio se la manifestazione del Sartoretto formi l’indicio legale contro Giacomo Miottello, che non si confessa correo del furto, ma soltanto di complicità di una truffa mediante il nascondere degli effetti che il Miotello gli disse d’aver rinvenuti.
Per altro la manifestazione è avvenuta spontanea ed in quel modo voluto dalla legge.
E da gli atti abbiamo la cattiva fama, carattere e condotta del Miotello, la di lui precedente condanna politica, l’amicizia col Sartoretto e la privazione dei mezzi di sussitenza, circostanze tutte queste se non prestano un prossimo indicio, considerate però in complesso formano, a mio credere, sospetti tali da chiamarlo a discolparsi.
Per lo che propongo che, salva ogni ulteriore deliberazione, sia sentito in via riservata in esame.
Vicenza lì 2 luglio 1830
Cavazzani
Conchiuso ad unanimia
Referato finale
Chiuso il processo costrutto contro Antonio Sartoretto detto Boaro, nativo di Salverosa di Castelfranco e da anni otto a questa parte domiciliato in S. Martino di Luperi, dell’età d’anni 22, di stato nubile e lavoratore di campagna, ve lo presento per la prolazione di sentenza.
Egli è principalmente imputato del furto con rottura avvenuto nella notte delli 15 ai 16 decorso aprile a danno di Domenico Santi detto Rosso di S. Martino di Lupari.
Consiste il furto in due pignate di rame l’una grande e l’altra mezzana, in sette pezze formaggio del peso di libre due l’una, in due panzette di porco salade, in cinque luganeghe porco, in due visiche porco empite di grasso ed in una dindia morta, il tutto del complessivo valore di lire 209 venete.
Tutti questi effetti vennero poscia rinvenuti presso lo stesso Antonio Sartoretto, cioè li commestibili in una di lui cassa nascosti, le pignate rame sotterrate nell’orto della casa da lui abitata, ciò che formò il legale indicio su cui nel giorno 8 decorso giugno questo tribunale, diettro referato che ad ogni buon fine prelego, decretò l’apertura dell’inquisizione contro lo stesso Antonio Sartoretto in stato d’arresto.
Nel primo suo costituto dichiarò il Sartoretto che, svegliatosi in quella notte ad un’ora avanti giorno, si alzasse dal letto e si recasse ad effetto di orinare sotto il porticale di quella casa, ed ivi rinvenisse tutti quei effetti, senza saper chi ivi reccati li avesse, e quindi egli li raccogliesse e ne rinchiudesse li commestibili nella sua cassa, e nascondesse le pignate di rame sotto terra nell’orto, con intenzione di consegnare poi il tutto al padrone, tosto che ne fosse venuto in cognizione a chi potessero appartenere.
Accordò egli peraltro d’aver tutta la pratica della casa del derubbato Santi per esserci stato per un intiero anno al di lui servizio in qualità di boaro, ma negò di aver commesso il furto di cui si tratta.
L’introduzione però del ritrovo delli su indicati effetti appariva falsa dalla niuna enonciata prova, dal non aver palesato a chichesia il ritrovo medesimo, dall’aver egli tagliata una di quelle pezze di formaggio e mangiatane in parte, dall’aver nascosto tutti li commestibili in una cassa, e sotteratte le due pignate di rame.
Congiunto tutto ciò alla di lui cattiva fama, e quindi conoscendo anche lo stesso Sartoretto che tale introduzione poco o nulla poteva giovargli, si fece in un secondo costituto a ritirare la primiera sua introduzione.
E disse che non già ad una ma due ore avanti giorno del venerdì 16 aprile, ritrovandosi egli a letto, si sentì a chiamare da Giacomo Miottello di S. Martino di Lupari colle precise: “Toni vien zo, che ti voglio dire una parola”.
Che allora, alzatosi dal letto, si portò abbasso, e ritrovato il Miottello, questo gli dasse tutti quei effetti che gli furono perquisiti, e lo pregasse a ritenerli, dicendogli di averli rinvenuti.
Che esso inquisito da prima si rifiutasse, dubitando che fossero altrimenti di illegittima provenienza, ma avendolo il Miottello nuovamente pregato a volerli custodire, colle precise “Costodisemeli Toni, giachè tu che non sei mai stato in vista della giustizia, niente ti può sucedere; e se al contrario li tengo presso di me, essendo stato in prigione, potrei espormi in faccia alla giustizia”, si persuase a prenderli e nasconderli, avendoli anche il Miotello detto che se per avventura venisse arrestato, dovesse dire di averli rinvenuti, senza esporre esso Miottello, mentre stando sulla negativa, in due mesi al più sarebbe posto in libertà.
Soggionse poi che il Miottello gli avea promesso una mezza sbanzica quando sarebbe venuto a riprendere gli effetti, e che tutto ciò che ora depose era pronto anche a sostenerlo anche in faccia del Miottello.
Con tutto ciò il Sartoretto nega di aver avuto alcuna previa intelligenza col Miotello, che ignorava che quelli fossero effetti rubbati, ma che soltanto ne formò allora il sospetto.
In queste circostanze pertanto esposte nel referato delli 2 luglio, trattandosi che il Sartorello non era confesso del furto e quindi non di correità del medesimo ma soltanto di complicità, fu nella sessione delli 2 luglio ritenuto che tale manifestazione del Sartoretto non formi l’indicio voluto dal paragrafo 265 contro il Miottello, ma si debba previamente sentire questo in via riservata sulle sue discolpe.
In sequella adunque di tale deliberazione, si assunse l’esame di Giacomo Miottello detto Moro, il quale disse primieramente di esser stato due volte condannato politicamente dalla pretura di Cittadella, l’una cioè a cinque giorni d’arresto per insulti e l’altra a giorni venti per furto, ma che non fu mai soggetto ad inquisizioni o condanne criminali. Ed infatti ciò corrisponde alle estratte fedine.
Negò poi di aver egli commesso il furto a danno di Domenico Santi, negò d’aver portato alcun effetto al Sartoretto perché avesse a custodirlo e nasconderlo, negò per fino d’essere stato in quella notte alla casa del Sartoretto e di averlo chiamato.
Ed in conseguenza dichiarò falso ed inventato tutto quello che depose in proposito il Sartoretto medesimo.
Anzi sostenne che in quella notte egli si fu sempre in sua casa e dormisse colla propria moglie, circostanza questa che potrà essere testificata non solo dalla medesima moglie, ma benanche dai di lui genitori.
E qui soggionse che in quella notte vi fu persona bensì che lo chiamasse perché si alzasse se voleva acquistare un mezzo sacco di polenta, ma che egli vi si rifiutò e rimase tuttavia a letto, ciò che avrà inteso anche li prenominati suoi genitori e moglie.
In fatto Maria Ferrari moglie, Antonio e Antonia Miotello genitori del predetto Giacomo lo corrispondono perfettamente nella introduzione, dicendo che il Giacomo Miottello, marito e figlio rispettivo, in quella notte del furto Santi si fosse fino circa alla mezzanotte nella stalla di Angelo Antonello, che indi si riecasse colla moglie a casa e si ponesse con questa a letto, e che mai si alzasse se non la matina susseguente.
Che anzi ad un’ora circa dopo la mezzanotte sentirono persona a chiamare il Giacomo colle precise : “Moro, Moro vien zo, non ti gà bisogno d’un mezzo sacco di polenta ?”, al che il detto Giacomo rispose: “Va’ all’inferno, no vegno in nessun luogo”, e che quindi egli non si mosse, ed il chiamante null’altro disse e ripartì.
In quanto poi chi si fosse quello che lo chiamò, li sudetti testimoni non sanno precisamente indicarlo, ma sospettano, e Antonio padre dichiara, essergli parso alla voce il Sartoretto Antonio.
Angelo Antonello e la di questo moglie Maria, se non corrispondono nell’introduzione d’essere il Miottello in quella sera trattenutosi nella loro stalla sino alla mezzanotte, stantecchè all’epoca del furto era stato [o]mmesso il filò, testificano però che il Giacomo Miotello, dopo le sofferte condanne politiche, erasi sempre condotto lodevolmente, e dichiarava che piutosto sarebbe morto di fame che commettere un’azione criminosa.
L’inquisito Sartoretto nonostante che se gli fecero conoscere queste circostenze egli punto non si smosse dalle sue introducioni, che cioè il Miotello si fosse quello che ad un’ora avanti giorno lo chiamasse e gli consegnasse quei effetti perché li custodisse e li nascondesse.
Ed in ciò si mantenne anche nel seguito confronto collo stesso Miottello, il quale gli sostenne in faccia non esser ciò vero, e che anzi egli in quella notte vene chiamato, ma non si smosse punto dal letto, come attestavano pure li di lui genitori e moglie.
Due altri furti vennero introdotti a carico del Sartorello, l’uno cioè di poche fassine a danno di Sebastiano Fabio e l’altro di quattro latole a danno di Sebastiano Petrin.
In quanto al primo si ha che il Sartoretto siasi introdotto nell’orto del Fabio ed ivi levasse un fascio di fassine per trasportarle, ma che veduto e sg[r]idato dalla moglie del Fabio, egli tosto abbandonasse le fassine, e senza parlare vibrasse una legnata alla premessa donna.
Sul conto del secondo, poi, apparisce che il Sartoretto, fugito dall’orto Fabio, s’introducesse nel cortile di Sebastiano Perin, ed ivi si prendesse quattro latole destinate da lavoro di cadreghe, un legno grosso e con questi se ne fuggisse.
Di ambedue questi furti che per il loro tenue valore sono qualificati per semplice trasgressione politica, il Sartoretto è negativo, ad onta che rapporto al secondo esistino tre testimoni, cioè Olivo Francesco, Domenico Zorzi ed Antonio Fabio, che lo vedessero a trasportare dal cortile Petrin un fascio di lattole.
Il Sartoretto non apparisce pregiudicato da censure criminali o politiche; per altro la politica auttorità lo descrive per persona priva de’mezzi di sussitenza, di niuna buona fama e di condotta orreprovevole, perché dedito al vizio, al giuoco, alle osterie e scialaqui.
La di lui condotta in carcere ed avanti al giudicio non diede motivo di censura, toltone che nelli seguiti confronti dimostrò arditezza.
La sua fisica costituzione apparisce sana e robusta, ed il medico alle carceri lo ritiene atto a sostenere gli inasprimenti di pena.
In questo stato di cose rassegno il seguente voto.
Voto
Non è da porsi in dubbio il furto delli commestibili e rami avvenuto a danno di Domenico Santi detto Rosso di S. Martino di Lupari, stante che nella precedente sessione delli 8 scorso giugno venne già riconosciuto e ritenuto verificato, in cui fu anche ritenuto il fatto stesso a delitto per duplice ragione, cioè per la somma oltrepassante li fiorini 25 e per il luogo chiuso in cui avvenne.
Di questo delitto risultava indiciato autore Antonio Sartoretto detto Boaro, per essersi presso di lui rinvenuti tutti gli effetti rubbati, parte nascosti in una cassa, e parte sotterrati nell’orto annesso alla di lui abbitazione.
Il Sartoretto è anche confesso d’aver egli ivi nascosti e sotterati quei effetti, ma nega d’avverli rubbati, e volle da prima averli rinvenuti sotto il porticale della casa in cui abita e poscia, ritirando una tale dichiarazione, disse di essergli stati consegnati da Giacomo Miottello perché li custodisca e li nasconda, dicendoli che a lui niente poteva succedere mentre non era in vista della giustizia, quando all’incontro esso Miottello, per essere stato altra volta in prigione, poteva essere compromesso; dal che egli Sartoretto avea sospettato che quei effetti erano nelle mani del Miottello da illegittima provenienza.
Il Miotello però nega tutte queste circostanze e pretende non essersi in quella notte assentato da casa, sul che è anche corrisposto dalli di lui padre, madre e moglie, ed è anche dagli iugali Angelo e Maria Antonelli ritenuto per incapace di commettere un tal furto, giachè la condotta da lui tenuta dopo una condanna politica dimostrava una emenda del trapassato, e non ammetteva ulteriori censure.
Non è quindi valutabile a favore del Sartoretto questa introdotta consegna degli effetti dal Miottello, e stà fermo contro di lui l’indicio legale d’essere egli l’autore del furto a danno Santi.
Indicio che viene rinforzato dalla pratica che egli avea della casa del derubato, e concomitato viene dalla riprova della introduzione sulla pretesa consegna dal Miotello.
Con tutto ciò, essendo egli negativo, ci manca in lui il requisito cardinale qual è quello della capacità, non essendo egli mai stato in antecedenza inquisito o condannato.
Dalla narrazione però fatta dall’inquisito sarebbe egli confesso di complicità nel furto, per aver accettato da custodire e nascondere quei effetti che egli stesso dice aver sospettato che non fossero di legitima provenienza.
Ma tosto che la sua introduzione non si verifica e manca nella prova sostanziale, che ciò il Miottello consegnato gli avesse quei effetti all’oggetto premesso, credo che tale confessione aver non possa la forza d’una prova legale, ed in conseguenza sia poco attendibile.
Egli è quindi che sono d’avviso di proporre, come propongo, che si debba pronunciare un dubbitativo giudicio contro l’arrestato Antonio Sartoretto detto Boaro sull’imputatogli delitto di furto, condannandolo nelle spese processuali ed alimentarie, ed in fiorini 12, tassa della sentenza, salvo il disposto del paragrafo 507 del Codice penale.
Rimessi gli atti alla pretura di Cittadella per le sue incombenze sul conto delli furtarelli a danno Fabio e Petrin.
Vicenza lì 14 decembre 1830
Cavazzani
Conchiuso per maiora contro il voto del relatore essere il Sartoretto colpevole degli imputatogli furto, ruberie ed offese, condannandolo a dicitto mesi di duro carcere, rassegnadosi gli atti all’eccelso appello, attesa la qualità della prova.
(Sentenza della Corte d’appello)
Propostosi il processo costrutto pel delitto di furto e per gravi trasgressioni politiche di ruberie ed offese corporali contro l’arrestato Antonio di Angelo Sartoretto detto Boaro, il quale fu costituito per la prima volta nel giorno 15 giugno 1830, essendosi poi ultimata l’inquisizione nel giorno 12 successivo novembre;
l’imperial regio tribunale d’appello generale e superior giudizio criminale ha confermato e conferma la sentenza 14 dicembre 1830, proferita dall’imperial regio tribunale di prima istanza in Vicenza, dichiarando Antonio Sartoretto colpevole del delitto di furto e delle gravi trasgressioni politiche di ruberie ed offese corporali, e condannandolo a diciotto mesi di carcere duro, da espiarsi nella casa di forza in Padova, ed al pagamento delle spese di vitto e della procedura, non meno che della tassa della presente sentenza in fiorini 12, sotto le riserve espresse nel paragrafo 537 del Codice penale; condannato esso Sartorello al risarcimento del danno verso Sebastiano Petrin per la sofferta ruberia da liquidarsi nella competente sede di giudizio civile, ed ommessa la riserva di indennizzazione verso Maria Fabio per le offese corporali per avervi la stessa rinunziato, come pure verso Domenico Santi detto Rosso per la fatta ricupera delle cose rubate.
Col ritorno del processo se ne rende inteso codesto tribunale provinciale per la corrispondente intimazione e desecuzione.
Dall’imperial regio tribunale d’appello generale
Venezia, 8 marzo 1831
All’imperial regio tribunale provinciale di Vicenza
File; Il correo.odt