Serenissimo Principe, Illustrissima Signoria
Fra tutte le pessime sorte d’huomini non si può immaginar né la pegior, né la più abhominevole di quella del tirano, essendo che questi non solo si contentino di esser rispetati, temuti et adorati, non comportando con il mezo della forzza che alcuno si lamenti o, per dir meglio, parli delle persone loro, ma vogliono imperio assoluto, sopra le moglie et figliole de chi loro più piace, essoluta patronia delle facultà dei poveri, procurando per ogni strada cum mezi ingiustissimi et inhonestissimi di saciar le loro voglie.
Et se pure si trova alcuno così pocco avertito che non resti contento d’esser batuto et ferito per le vie della giusticia lamentandosi, presto sono levati dal mondo et amazati con dispiacer infinito dei buoni et in particular di Vostre Illustrissime Signorie.
Di questo numero si puol dir, senza alcun dubio, esser stato il quondam conte Annibale Sarego et esser al presente il conte Giulio suo figliolo, poiché oltra il levar li beni, dar bastonate et ferite a quelli che non soportano ogni sorte d’ingiuria et offesa, l’anno 1574 fece col consenso di detto quondam suo padre ammazzar nel proprio cortivo nel territorio padovano il povero Mathio Di Pasi, il qual era reduto lì come bandito della magnifica città di Verona, restato absente per dubio delli estremi favori che essi conti hano in quella Consolaria, con tutto che meritasse per altro esser assolto, essendo la imputatione che egli haveva di haver amazato con una vanga il conte Manffredo, fratello del sudetto conte Giulio, ritrovato in casa sua propria sopra il fatto del sforcio della propria sua figliola.
Né contento di haver fatto amazar questo misero di Mathio, gli fece spicar la testa dal busto, trucidatolo prima di undeci ferite et quella fece portar nella contrà di Benzon sotto Manerbe, facendola metter sopra un pallo per mezo la casa dei suoi lavoradori, dove prima soleva habitar essero misero di Mathio, per spau[r]ir tutti di quella villa et fargli saper che li Saregi sapevano far simili atti barbarici a chi non soportava la loro tiranide.
Caso veramente crudele et più che inhumano, nientedimeno né havendo persona che procurasse la vendeta ne andò impunito.
Volesse doppo, Illustrissimi Signori, la disgracia di me povero Nicolò Crasso suo devotissimo servitore et cittadino di Cologna che fosse indotto pigliar ad affitto li lochi di essi conti nella villa della Miega, né potendo più soportar li infiniti danni che da loro, padre et figliolo, mi erano dati, cerchorono essi con diversi mezi d’oltregiarmi.
Et finalmente con legierissima ocasione mi furno adosso, ambi padre et figliolo, sino nella casa propria con archibusi prohibiti, quali al continuo suoleno portare, per amazarmi.
Pur mi salvai miracolosamente et ricorsi alla giusticia del clarissimo podestà di Cologna, facendone querela con l’agiuto del povero et infelice quondam mio genero messer Alvise Zuccolo dottor, la qual cosa fu di tanto sdegno ad essi conti, li quali non vogliono per superiori né ancho li magistrati di questa eccelsa Republica, che deliberorno con il suo solito mezo de banditi, ai quali danno di continuo recapito nella detta villa della Miega, suo locho, et in particular a Giulio Di Lazari, capo de banditi et scelerati.
Però, sapendo essi che io et il detto povero mio genero erimo alla festa del clarissimo podestà nostro di Cologna, di mandar dui mascherati sopra essa festa per riconoscer le persone nostre et poi gli mandorno armati di schiopi da ruoda carichi di molte balle et ballini et altre sorte d’armi, ad aspettar che andassimo a casa.
Et ivi apostati nel segrado di Madonna Santa Maria nel castel di Cologna, per mezo la porta di casa nostra, giunti che fossimo a grand’ hora di note con le nostre moglie et sorelle, con dui torzi acesi, fu sparata un’archibusata dalla qual fui colto io Nicolò Crasso nel brazo destro et passato da un canto all’altro, per la qual cascai in terra, subito come morto, et imediate ne fu sparata un’altra, la qual colse l’infelice di esso quondam mio genero messer Alvise Zuccolo dottor in un fianco, con tre balle, qual subito passò ad altra vita, lassando la moglie giovane con dui figliolini, d’uno dei quali non ha anchor forniti sei mesi, in povertà grandissima per esser restati privi di suo padre, qual con la sua profesione guadagnava per il manco tresento scudi all’anno, con quali sostentava la famiglia sua honoratamente.
Caso veramente così bruto et di tanta reputatione ad essi conti che teme ognuno di parlar di essi, nonché contra loro dimandar giusticia, per li esempi freschi che si vedono inanci li ochi.
Però a fin che un caso di tanta importanza non passi impunito, sì come fuori di questa illustrissima città potrebe facilmente passar, per la soprema potencia sua et miseria mia estrema, non potendo altrove sperar esser diffeso da alcuno, né da alcun haver certa et sicura giusticia; et perché ancho non cessano di continuo con nuovi assassinamenti insidiar alla vita mia, la quale altrove che in questa illustrissima città non posso haver sicura, volendo perseguir tanta et così giusta vendetta, poiché col mezo dei suoi carnefici, dei quali è solito servirse nel cometter homicidi et assassinii, ha ancho recentemente procurato et tutthora procura levarmi di vita.
Però ricorsso a piedi della Serenità Vostra io Nicolò sodetto et la misera sfortunata mia figliola humilmente le suplichiamo che per liberar quei lochi tutti dalla tirannide et noi dal pericolo della morte, deleghi il caso del sudetto assassinio all’officio clarissimo dell’Avogaria, acciò che sì come Dio signor nostro vi ha levato per nostra sicurezza il conte Annibale padre di vita, così per mezo della giusticia vi sia ancho levato il conte Giulio suo figliolo con li altri ministri esequutori de tanti deliti comessi da lui.
Et in buona gracia di Vostre Signorie Illustrissime, genibus flexis, me gli raccomando.
1577 30 luglio
Che alla sopradetta supplicatione rispondino li rettori di Verona…et l’istesso faci il podestà di Cologna.
(filza 331)