Claudio Povolo
Un episodio della lotta contro il banditismo nella Repubblica di Venezia (Lago di Garda, 1608-09)
La caccia
Il gruppo di uomini era rimasto in attesa per ore, acquattato lungo la riva del lago, nel punto in cui la catena delimitava l’ingresso al porto di Riva. Erano stati avvisati che l’imbarcazione con a bordo la decina di banditi, conosciuti come gli Zanoni, sarebbe probabilmente giunta quella notte stessa. Si trattava di una pericolosa banda di fuorilegge capeggiata da Giovan Francesco Beatrice, detto Lima, il quale da anni gestiva un fondaco di grano e possedeva pure un’abitazione nel villaggio che si affacciava su quella parte del lago delimitata a settentrione dalla striscia di territorio arciducale retto dal governatore di Riva Gaudenzio Madruzzo. Era da più di due mesi che attendevano quel momento e, con ogni probabilità, si erano mossi con estrema cautela per non farsi notare. A notte fonda l’imbarcazione che trasportava i fuorilegge giunse al porto di Riva. E fu accolta da una micidiale scarica di colpi di archibugio. Alcuni morirono sull’istante e i loro corpi vennero gettati in acqua dai sopravvissuti che, senza esitazione, si allontanarono precipitosamente o si tuffarono nel lago, sottraendosi al fuoco degli attaccanti. Il mattino seguente non fu ritrovato che il corpo di Giovan Battista Pace, il quale venne trascinato a riva. Nessuna traccia degli altri banditi, in particolare di Giovan Francesco Beatrice e del nipote Giovanni Beatrice detto Zanon, considerati le prede più ambite per i numerosissimi bandi che da anni pendevano sulle loro teste. Dopo aver tagliata e posta in un sacco la testa del Pace, il gruppo si mise all’inseguimento dei fuggitivi, che avevano raggiunto la riva a nuoto. La caccia proseguì più a sud, negli stessi confinanti territori della Repubblica.
Alessandro Remer, l’uomo che guidava gli inseguitori, dopo essere sbarcato a Limone, si diresse verso l’entroterra e ritrovò in un casolare sperduto tra i monti Giovan Francesco Lima, il capo dei fuorilegge, il quale era stato gravemente ferito ad una gamba ed era probabilmente riuscito ad individuare quel rifugio con l’aiuto del nipote Giovanni e degli altri fuggitivi. Alessandro Remer procedette senza esitazioni alla celebrazione di un rituale preordinato e ritenuto essenziale per il felice conseguimento dell’impresa di cui era divenuto feroce esecutore. Innanzitutto chiamò un sacerdote perché procedesse a confessare l’uomo che giaceva ferito nel casolare. Si procurò poi dei testimoni che avrebbero dovuto assistere a quanto aveva intenzione di fare. Ed infine chiese al fuorilegge se preferisse essere ucciso con un’arma bianca oppure con un colpo di archibugio. Giovan Francesco Lima venne ucciso con due colpi di archibugio e la sua testa mozzata venne posta nel sacco insieme a quella di Giovan Battista Pace. Ritornati a Riva, Alessandro Remer e i suoi compagni, constatarono con disappunto che gli altri corpi non erano più riaffiorati dal lago e perciò affidarono ad un procuratore il compito di recarsi a Salò per l’istruzione di un processo che avrebbe dovuto attestare l’identità delle persone di cui si consegnavano le teste e le modalità e gli autori della loro uccisione. Essi non posero comunque fine alla caccia. La resa dei conti era appena iniziata.
Quanto avvenne la notte tra il 13 e il 14 febbraio 1609 si è potuto ricostruire tramite il resoconto del processo istruito su iniziativa dei cacciatori di taglie e sulla scorta dei testimoni da loro appositamente presentati per avvalorare le loro dichiarazioni. Una narrazione filtrata dall’obbiettivo precipuo di ottenere i ricchi premi promessi dalle istituzioni veneziane per la cattura o uccisione dei banditi, ma, di certo, reticente nell’esprimere la complessità delle dinamiche che condussero all’agguato e all’uccisione dei banditi. Una narrazione ricca comunque di spunti e tale da suggerire un quadro più omogeno alla luce di quanto si era svolto in precedenza e, soprattutto di quanto sarebbe avvenuto nel periodo successivo. La storia di Alessandro Remer si intrecciò a quella dei banditi uccisi, ed entrambe ci sono giunte filtrate dalle procedure previste dalle leggi che in quegli anni vennero deliberate in materia di banditismo. Ma anche dall’uso strumentale che ne fecero alcuni dei protagonisti direttamente coinvolti nel conflitto e impegnati nell’affannosa ricerca delle taglie e dei premi concessi dalle istituzioni veneziane. Del tutto assente la narrazione di coloro che caddero vittime dell’agguato o che comunque svolsero il ruolo di preda, anche se la loro fisionomia appare sullo sfondo di quella che, sotto molti punti di vista, si delinea come la rappresentazione storica di un evento tragico, ma caratterizzato da una scenografia ritualizzata che aveva il fine precipuo di renderlo credibile e, soprattutto, provvisto dei requisiti previsti dalle leggi emanate in materia di banditismo.
La storiografia sul banditismo
La storiografia degli scorsi decenni sul tema del banditismo si è soffermata in particolare sulla tesi formulata da Eric Hobsbawm in merito alla figura del bandito sociale. Una tesi che è stata sostanzialmente contestata da diversi punti di vista, anche se essa ha continuato ad esercitare un’indubbia attrazione nell’ambito degli studi che si sono rivolti ad esaminare il banditismo nelle sue implicazioni sociali e culturali. Le successive correzioni di tiro dell’illustre storico britannico non hanno comunque dileguato le perplessità di coloro che soprattutto sottolineavano l’importanza della ricostruzione del contesto politico e sociale in cui il bandito si muoveva. E del resto erano assenti nel testo di Hobsbawm, così come nei lavori che più o meno criticamente si rifacevano ad esso, le strette connessioni tra banditismo e pena del bando che caratterizzano l’età medievale e moderna. Le interrelazioni tra faida e banditismo hanno avvicinato la figura del bandito ai conflitti locali e alla loro interazione con i sistemi politici dominanti, ma non si è sufficientemente indagato sulle dimensioni costituzionali che le racchiudevano e che sono essenziali a spiegare non solo la specificità dei conflitti, ma pure gli approcci storiografici tramite cui ci si è avvicinati alla dimensione della violenza.
Le numerose monografie e lavori collettivi che in questi ultimi anni si sono soffermati sulle origini e modalità della violenza in età medievale e moderna hanno sottolineato la debolezza interpretativa delle tesi di Norbert Elias e di Max Weber, che presuppongono il graduale emergere della forza dello stato in grado di legittimare o monopolizzare l’uso della violenza. Ed alcuni anni orsono Charles Tilly ha posto in rilievo come le diverse realtà statuali si imposero gradualmente e contraddittoriamente utilizzando le molteplici forze sociali esistenti sul territorio e comunque imponendosi come garanti dell’ordine costituito esistente. Un’ipotesi alquanto suggestiva se solo si presta attenzione alle modalità tramite cui la violenza delle istituzioni centrali interagì con quella delle forze che ad essa si opponevano nei diversi contesti locali. In realtà lo straordinario rigurgito di violenza che si registra a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento incontrò un evidente supporto nella legislazione bannitoria che venne emanata dai poteri centrali in quel torno di anni. Banditismo e sistema della vendetta erano intensamente intrecciati tra di loro e così i loro esiti, che riflessero, in primo luogo, l’indebolimento degli assetti costituzionali che avevano contraddistinto per secoli le diverse strutture politiche che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo. Le interconnessioni tra faida e banditismo, rilevate per alcune zone della Spagna o della penisola italiana sembrano implicitamente rinviare alle loro specificità istituzionali, caratterizzate da un articolato sistema della vendetta nel territorio.
La pena del bando
Ampiamente utilizzata in ogni epoca e in diverse strutture politiche, la pena del bando assunse un’importanza di rilievo a partire dal basso medioevo, sia come arma di lotta politica (il cosiddetto bando politico) che come strumento di controllo sociale che poteva essere utilizzato a difesa dei valori e dell’ordine comunitario, ma anche per agevolare la risoluzione dei conflitti tra le famiglie che competevano per l’onore e la gestione delle risorse economiche. Si trattava dunque di una pena che interagiva con i riti giudiziari processuali e che rifletteva quel sistema costituzionale medievale eteronomo contraddistinto quasi ovunque da una fitta rete di giurisdizioni, ciascuna delle quali era dotata di una propria autonomia, anche se i valori morali, religiosi e politici erano sostanzialmente condivisi. Non a caso la persona colpita dalla pena del bando poteva per lo più essere uccisa impunemente se avesse oltrepassato i confini da cui era stata interdetta. La pena del bando, che escludeva la persona accusata di un crimine dalla comunità, poteva dunque essere concepita come uno strumento per stabilire la tregua necessaria, in attesa che i gruppi antagonisti giungessero alla conclusione di una pace.
Quasi ovunque, nel corso del Cinquecento, sotto la spinta di una politica criminale direttamente controllata dal centro, la pena del bando smarrì i suoi tratti originari per esprimere una concezione di ordine che si allontanava decisamente dal precedente sistema costituzionale in cui la pace e la vendetta svolgevano un ruolo predominante. Nella Repubblica di Venezia questo processo ebbe un’impennata a partire dagli anni ’80 del Cinquecento, quando le più importanti magistrature lagunari intervennero in una materia che sino ad allora era stata prevalentemente prerogativa dei diversi contesti locali. La nuova normativa sul banditismo amplificò indubbiamente la dimensione della violenza, ma soprattutto ne evidenziò gli aspetti strumentali e repressivi. La catalizzazione del banditismo nelle aree di confine fu il risultato inevitabile della messa in discussione della tradizionale pena del bando. Ma per poter far rispettare la diversa concezione di ordine e di sicurezza le autorità centrali non esitarono ad utilizzare le dinamiche e le ambiguità che animavano lo stesso banditismo puntando su figure che si potrebbero definire interscambiabili tra il ruolo di banditi o di cacciatori di taglie, più o meno apertamente legittimati ad operare sul territorio. Le nuove realtà statuali emergenti, come ha notato lo studioso statunitense Thomas Gallant, furono costrette ad utilizzare queste forze irregolari come guardiani delle frontiere e, molto spesso, risultava difficile distinguerle dagli stessi banditi che operavano ai confini o si addentravano negli stessi territori per compiere rapine o per portare a compimento la loro vendetta. L’azione repressiva mise comunque in rilievo il ruolo dei poteri centrali nell’utilizzo legale della violenza e nella ridefinizione politica degli stessi confini. Nonostante il loro linguaggio apodittico e decisamente negativo nei confronti del banditismo, le fonti giudiziarie non riescono comunque a nascondere l’entità di un fenomeno che, soprattutto a partire dalla fine del Cinquecento, assume aspetti inediti. La figura del bandito famoso, che l’azione repressiva evoca di frequente, si alterna a quella dei suoi antagonisti, che senza tregua gli danno la caccia alla ricerca di una spasmodica vendetta, oppure per ottenere i ricchi premi promessi dalle autorità centrali.
Le voci liberar bandito
La nuova legislazione bannitoria, estesa a tutti i territori della Repubblica amplificò la dimensione dei confini che sino ad allora si erano modellati sugli antichi assetti costituzionali. Le caratteristiche premiali che la contraddistinsero, incentrate non solamente sull’assegnazione delle taglie previste nella sentenza di bando, ma anche sul valore monetario e di scambio che si veniva ad assegnare ai banditi che venivano catturati od uccisi, ebbero delle conseguenze notevoli sul piano delle dinamiche conflittuali e del controllo sociale. La legislazione assunta a partire dal 1580, e che tramite proroghe e successivi aggiustamenti sarebbe proseguita nel secolo successivo, modificò di fatto la figura del bandito tradizionale ed alimentò un vero e proprio mercato delle cosiddette voci liberar bandito e la conseguente proliferazione di figure sociali che miravano ad ottenere vantaggi economici o personali con l’eliminazione di coloro che, colpiti dalla pena del bando, erano divenuti veri e propri oppositori politici.
La voce liberar bandito era in primo luogo un diritto che poteva essere acquisito da una persona che, colpita dalla pena del bando, catturava un bandito della medesima o superiore condizione. Una previsione che, nonostante alcune prudenziali limitazioni, ben presto superate, mirava in primo luogo ad assegnare alla pena del bando quell’efficacia che, evidentemente, era difficilmente raggiungibile tramite altri strumenti repressivi. Ma la stessa voce era pure concessa a tutti coloro che, pur non banditi, avessero catturato od ucciso un bandito colpito da un bando che prevedesse come alternativa la morte, il carcere a vita o dieci anni di galea ai remi. Una concessione che aveva rapidamente incentivato la caccia ai banditi e che si rivelò ben presto efficace in quanto si calava in contesti sociali profondamente innervati dal sistema della vendetta.
Per ovviare ai frequenti abusi e brogli la legislazione bannitoria mise pure in atto la procedura che doveva essere seguita per ottenere la voce liberar bandito. Coloro che avessero catturato o ucciso un bandito in un determinato territorio avrebbero dovuto di loro iniziativa provvedere entro due mesi all’istruzione di un processo presso il magistrato competente. Il fascicolo istruito ed inviato a Venezia dai rappresentanti delle principali città, doveva poi essere esaminato entro due mesi dal Consiglio dei dieci per la concessione della voce. Colui che avesse ottenuto la voce aveva poi tempo un anno per richiedere allo stesso Consiglio dei dieci la liberazione di se stesso o di un altro bandito.
Una procedura apparentemente rigida, che doveva contenere la complessità di un fenomeno che si calava in un contesto altamente conflittuale e che inevitabilmente veniva utilizzata e manipolata da cacciatori di taglie che si muovevano spesso in funzione e nell’interesse di soggetti che preferivano rimanere nell’ombra. Come nel caso di Alessandro Remer di Malcesine, la cui impresa ci è giunta tramite il fascicolo processuale istruito a Salò tra il 18 febbraio e il 2 marzo 1609. Fascicolo che i rettori di Brescia inviarono a Venezia il 22 maggio successivo e il Consiglio dei dieci esaminò il 18 agosto 1609 di seguito ad una supplica inoltrata dal Remer per ottenere la concessione di quattro voci liberar bandito.
La narrazione di Alessandro Remer
Il 17 febbraio 1609 il mercante e nobile bresciano Palazzo Palazzi si presentò a Salò per informare il rappresentante veneziano dell’uccisione di alcuni famosi banditi. Lo faceva a nome di Alessandro Remer e compagni, autori dell’impresa, i quali non si erano presentati con le due teste degli uccisi, in quanto, a detta del Palazzi, erano ancora impegnati nell’inseguimento dei banditi sfuggiti all’agguato. In realtà, a comparire, il giorno successivo, alla presenza del provveditore e capitano della Riviera fu Giovanni Rigo, interveniente di Riva, il quale confermò come Alessandro Remer e i suoi compagni avessero alcuni giorni prima ucciso nel porto di Riva Giovan Francesco Beatrice e altri banditi. Presentava inoltre le teste di due dei banditi uccisi, richiedendo esplicitamente che fosse istruito un processo su quanto era avvenuto. Per attestare la verità di quanto affermato elencava per iscritto alcuni dettagliati capitoli, su ciascuno dei quali chiedeva fossero esaminati i testimoni che sarebbero stati presentati dal Remer. Lo stesso giorno le due teste vennero esposte sulla piazza della città sopra la colonna di San Marco e furono riconosciute da alcuni testimoni come appartenenti a Giovan Francesco Lima e Giovan Battista Pace. Il 20 febbraio, Vincenzo Longo, mercante di Desenzano, richiese, a nome di Alessandro Remer, che Gaspare Feltrinello, uno dei testimoni da lui prodotti, fosse esaminato in casa del mercante Alberghino Alberghini, in quanto «aggravato da male in una gamba». Una richiesta del tutto plausibile, se non fosse stato per il fatto che il teste rivelava da subito, senza alcun infingimento, di essersi trovato nella notte dell’agguato sull’imbarcazione presa di mira dal gruppo di cacciatori di taglie, attestando che nello scontro erano stati colpiti a morte tre dei banditi, che lui stesso aveva provveduto a gettare nel lago. Il 21 febbraio successivo il cancelliere di Salò esaminò i testimoni che deposero sulla cattura di Giovan Francesco Beatrice e sulla sua uccisione da parte di Alessandro Remer e compagni.
I mercanti del lago
Il fascicolo processuale istruito su iniziativa di Alessandro Remer era scandito da un rituale che doveva innanzitutto attestare la legittimità delle richieste che Alessandro Remer avrebbe successivamente dovuto presentare al Consiglio dei dieci. In realtà nel suo insieme esso rappresentava i retroscena drammatici che avevano condotto all’agguato e alla messa fuori gioco della banda Zanoni. Palazzo Palazzi, Vincenzo Longo e Alberghino Alberghini erano i tre mercanti entrati in aperto conflitto con i banditi sin dall’estate del 1607, coinvolgendo altre influenti famiglie di Salò. Un duro conflitto che si era aperto per il controllo della navigazione sul lago e che si incentrava essenzialmente sul ricco mercato cerealicolo di Desenzano e sulla florida attività di contrabbando che si sviluppava in particolare verso i territori arciducali. Il gruppo di mercanti aveva ottenuto probabilmente il tacito assenso del governatore di Riva e, di certo, l’appoggio del Provveditore veneziano di Salò Pietro Benedetti. Un’alleanza che mirava non solo a metter fuori gioco quelli che a tutti gli effetti venivano considerati nemici pubblici, ma pure ad assicurare il transito dei grani per il lago e, quasi certamente, anche la ripresa dell’attività di contrabbando. Gaspare Feltrinello, il teste escusso in casa di Alberghino Alberghini, era stato evidentemente infiltrato nel gruppo dei banditi su iniziativa dei mercanti e, probabilmente, dello stesso provveditore. Grazie alla sua delazione i mercanti erano riusciti a tendere l’agguato con un indubbio successo e a sgominare quasi per intero la stessa banda. Ma il fascicolo processuale rappresentava in ultima istanza la messa a punto di un regolamento di conti che aveva non solo l’obbiettivo precipuo di attestare il successo di un’operazione che partiva da lontano e che era stata condotta da un gruppo di mercanti in combutta con le autorità locali e con veri e propri imprenditori della violenza, ma pure di sancire la progressiva delegittimazione dei fuorilegge che godevano di largo consenso tra la popolazione locale.
Le richieste di Alessandro Remer
Alessandro Remer, nell’agosto del 1609 chiese che gli fossero concesse quattro voci liberar bandito. In realtà il Consiglio dei dieci gliene diede solamente due. I corpi degli altri banditi uccisi non erano stati recuperati e la suprema magistratura veneziana non concesse alcun sconto, nonostante il Remer decantasse l’estrema pericolosità della banda Zanoni e enfatizzasse a dismisura i delitti da essa compiuti, affermando che i suoi membri avessero fatto «macello d’huomeni, che in meno di sette anni ne uccisero più di duecento». Riscosse la prima voce il 7 settembre 1609. Ma gli premevano quegli altri due banditi uccisi, i cui corpi non erano riaffiorati dalle acque del lago. Perciò ritornò alla carica nuovamente il 18 dicembre dello stesso anno, chiedendo gli fossero concesse altre due voci, ma inutilmente, nonostante decantasse le malefatte dei banditi da lui uccisi. Dopo aver riscosso la seconda voce nel febbraio del 1610, il 28 giugno successivo si decise infine a richiedere le taglie che pendevano sul capo dei due banditi di cui già aveva riscosso le voci. In tale occasione incaricò della riscossione uno dei compagni che insieme a lui avevano partecipato all’agguato dell’anno precedente. Confessava infatti di essere lui stesso bandito e di non poter presentarsi personalmente a riscuotere la taglia.
Il sopravvissuto
Dall’agguato non sopravvisse che Giovanni Beatrice detto Zanon, nipote di Giovan Francesco. Come riferì il provveditore Benedetti, il fuorilegge si era fortunosamente salvato tuffandosi nel lago. Rifugiatosi a Gargnano, paese natio, venne ferito ad un braccio, probabilmente dallo stesso Gaspare Feltrinello, il quale, dopo aver informato i cacciatori della presenza di Giovan Francesco Beatrice nel casolare di Limone, aveva tentato di chiudere definitivamente la partita con gli ex-compagni. Il provveditore riferiva nel suo dispaccio del 18 febbraio del 1609 come non disperasse che anche il Beatrice fosse eliminato, in quanto «cacciato tuttavia da domino Palazzo Palazzi, gentilhuomo bresciano et dalli Longhi, mercanti pur bresciani et altre molte genti, che sono tutti fuori con miei mandati». . In realtà non fu così.
Giovanni Beatrice sopravvisse alla caccia spietata, ma la micidiale operazione di delegittimazione proseguì, e culminò, nell’estate dell’anno seguente, con l’accusa a lui rivolta dell’omicidio del podestà di Salò Bernardino Ganassoni. Un’accusa abilmente orchestrata dal mercante Alberghino Alberghini, il quale, nel giugno del 1610, nonostante fosse stato bandito dalla Riviera del Garda per i numerosi debiti accumulati, si era trasferito a Salò per regolare i conti con i suoi antichi avversari. In tale occasione era scortato da Alessandro Remer, su cui pendeva pure la sentenza di bando inflittagli due anni prima dal podestà di Verona. Vero e proprio imprenditore della violenza, che aveva preferito non utilizzare personalmente le voci ottenute dal Consiglio dei dieci, il Remer sembrava aver unito il suo destino ad un imprenditore che appariva essere di ben altra natura, ma che per la sua spregiudicata attività si sarebbe pericolosamente avvicinato a quella dei sicari da lui occultamente utilizzati. L’opera di delegittimazione nei confronti di Giovanni Beatrice era comunque pienamente riuscita, anche se il famoso bandito, grazie in parte ai suoi stessi avversari, entrò negli anni seguenti nella dimensione del mito. Una dimensione di cui egli stesso si rese consapevole come attestò, alcuni anni più tardi in una sua supplica, in cui chiedeva alle autorità veneziane la grazia di poter rientrare nei territori della Repubblica:
Confesso esser reo di molti bandi, tutti però per delitti privati et niuno per minima attinentia di cose publiche e di stato, né con conditione escluso dalla presente parte, né meno con carico di risarcir alcuno, ma siami ben anco lecito il dire che, essendo stati commessi molti eccessi da altri sotto il nome mio, di quelli essendo fuori di speranza di potermi liberare, già mai non ho curato di scolparmi.